Future Gli "anelli mancanti" dell'IA e la trappola della produttività
Quando le macchine lavorano "con" gli esseri umani, i cambiamenti non riguardano solo l'efficienza e la redditività. Bisogna indagare la qualità delle relazioni tra persone e "agenti non umani"
“L’intelligenza artificiale è programmata per fare qualcosa di buono, ma può sviluppare metodi distruttivi per raggiungere il suo obiettivo”. È uno degli scenari descritti dal Future of Life Institute e riguarda uno dei grandi non detti sulle macchine. Nella descrizione dei benefici delle tecnologie, spesso ci si concentra sugli utenti finali, che avranno servizi più personalizzati e sempre disponibili. Nonostante tutto. Nella maggior parte dei casi, vengono trascurate le persone che, con l’intelligenza artificiale, ci lavorano (devono addestrarla, testarla, correggerla, integrarla nei processi).
Se il machine learning viene scelto per migliorare la redditività di un’azienda o per incidere sul suo posizionamento, migliora o peggiora la qualità del lavoro? Perché oltre che su utile e redditività, bisogna iniziare a chiedersi come l’intelligenza artificiale impatta sul benessere delle organizzazioni. Mentre i discorsi sul rapporto tra macchine e persone viene polarizzato su due prospettive: distruggerà posti di lavoro oppure ne creerà di nuovi. Torniamo alla frase iniziale: i posti di lavoro creati dall’intelligenza artificiale non sono automaticamente migliori di quelli esistenti.
Quando le tecno-utopie falliscono (senza collaborazione)
Un articolo apparso su ZDNet rende il tutto più esplicito: “Per padroneggiare l’intelligenza artificiale non dimenticate le persone e i processi”. Perché i robot possono portare a risultati inaspettatamente negativi, e l’unica soluzione è tornare indietro. Un caso di scuola riguarda Mercedes: nel 2016, ha abbandonato la tecno-utopia della fabbrica totalmente automatizzata per ri-rimpiazzarla con “esseri umani più capaci” che, con macchine più piccole e flessibili, possano svolgere meglio il proprio lavoro. E ancora, nel 2018, il visionario Elon Musk si è accorto che, negli avveniristici stabilimenti che producono le auto Tesla, la robotizzazione ha generato così tante complessità da ritardare la consegna delle Model 3, con danni all’immagine del brand ed effetti negativi in borsa.
Ma l’intelligenza artificiale non riguarda solo i robot. Per la natura di questa tecnologia – basata su fasi molto intense di “addestramento” delle macchine – deve appoggiarsi a caratteristiche assolutamente umane per iniziare a funzionare.
L’intelligenza artificiale migliora gli umani, non li batte
Prendiamo uno dei lavori destinati a esplodere con il diffondersi degli algoritmi: i data analytist. Da un report di PwC capiamo che, queste figure, non possono essere più immaginate come fac totum dei dati. Perché, lavorare con l’intelligenza artificiale, non è mai una relazione singola: uomo-macchina. Piuttosto si può parlare di una collaborazione che si sviluppa su più livelli tra persone e sistemi. In altre parole, tra team e tante tecnologie basate sull’intelligenza artificiale. Nel mezzo ci sono tante skill diverse: da quelle analitiche per programmare le macchine, a quelle visuali per dare ordine alle informazioni macinate dagli algoritmi, fino a capacità decisionali per verificare l’impatto delle valutazioni generate in automatico. Se dovesse mancare qualcosa, si rischia di creare un sofisticatissimo castello di carte. Insomma, oggi, con qualche dato in più, possiamo ribadire un concetto: ovunque vengano introdotte entità in grado di prendere decisioni (siano umani o algoritmi), la cooperazione diventa fondamentale.
Proviamo a spingerci oltre e a indagare cosa manca per attivare queste dinamiche di collaborazione. Paul R. Daugherty e H. James Wilson, in Human + Machine: Reimagining Work in the Age of AI hanno individuato gli “anelli mancanti” (missing middle) per attivare “spazi in cui persone e machine collaborano”. Non esistono primati delle macchine o dell’uomo, ma territori comuni. Tra le capacità tipicamente umane (come la creatività e il giudizio), e quelle in cui gli algoritmi stanno iniziando a dare il loro contributo (come le previsioni basate sui dati e la ripetizione di attività routinarie) ci sono intersezioni in cui si dispiega l’ibridazione. E quindi il valore.
Gli “anelli mancanti” per avvicinare uomo e macchina
Da un lato, ci sono compiti in cui gli umani completano le macchine (che hanno bisogno di essere addestrate) perché, senza persone reali che insegnino ai robot come funziona un dialogo umano, l'automazione non può funzionare. Così come le macchine non possono capire "lo scopo" di un'azione. Dall’altro gli algoritmi possono potenziare le persone. Per esempio l’intelligenza artificiale può generare una visione del mondo più grande, basata su quantità di informazioni impossibili da elaborare per noi, può permettere di intervenire su spazi infinitesimi (con la microchirurgia robotica), può farci scoprire relazioni tra miliardi di immagini (con la computer vision).
Possiamo leggere la prospettiva (fin troppo) ottimistica di Human + Machine come un’alternativa a chi guarda all’intelligenza artificiale come una sfida tra winner e loser, e cioè tra chi trova la ricetta per il miglior algoritmo contro chi sceglie la tecnologia sbagliata e rimane escluso dal progresso. Invece, riflettere sulle modalità di confronto e accrescimento reciproco tra persone e “agenti non umani”, per lavorare meglio, è un modo per uscire da una visione in cui le macchine sono il mezzo esclusivo per aumentare la produttività. Perché, più che battere le capacità umane in un ambiente simulato, è su questo terreno che l’intelligenza artificiale potrà fare la differenza. Altrimenti, si tratterà di un altro sofisticato utensile.