Companies Lo storytelling in azienda non è un “contenuto scritto bene”
Lo spazio del racconto, nelle organizzazioni, non è più (solo) la spiegazione di ciò che si fa: ha un ruolo strategico. Le storie diventano un elemento di connessione tra persone, ruoli tecnici e clienti
Fino a qualche decennio fa, chi raccontava storie apparteneva a un’industria riconoscibile: l’editoria. Non è più (solo) così. Da tempo, giornalisti, copywriter e traduttori hanno iniziato a ibridarsi: sono diventati brand journalist, corporate storyteller, customer happiness manager. È un dato di fatto, ma è solo un atomo di un cambiamento più grande. Perché: “Dobbiamo abbandonare l’idea secondo la quale un contenuto fa parte di un ‘container’, che risponde a domande come: ‘dove inseriamo questo contenuto?’, ‘come lo archiviamo?’, ‘come lo gestiamo?’”, così in un’intervista a APQC Louis Richardson spiega la sua missione. È il chief storyteller di IBM, uno dei rappresentanti esemplari di questo scenario: per le aziende, creare un racconto condiviso, è diventato strategico. È una dimensione che va oltre la realizzazione di un keynote, di un video o di un TED Talk. Impatta sulle dimensioni sociali e collaborative del lavoro, per andare oltre. “Lavoro nelle intersezioni tra tecnologia e persone”, scrive Richardson sul suo profilo LinkedIn.
Esistono aziende narrative?
Lo storytelling sta oltrepassando la dimensione di skill (raccontare in modo efficace) per permeare l’impresa. Non è più un post – scritto bene – e pubblicato su una piattaforma aziendale. È un ritorno alla sua dimensione originaria. Come spiega Jonathan Gottschall nel suo L’istinto di narrare: “Le storie sono il collante della vita sociale umana, definiscono i gruppi e li tengono saldamente uniti. Viviamo nell’Isola che non c’è perché non possiamo farne a meno. L’Isola che non c’è è la nostra natura. Siamo l’animale che racconta storie”.
Una storia dà forma alle esperienze e alle specializzazioni (con nomi sempre più tecnici e più vaghi), per metterle in relazione tra loro e generare una visione del mondo, nella quale chiunque fa parte di un’impresa comprende “perché” sta svolgendo i suoi task quotidiani. Ecco perché a Richardson piace definirsi “story whisperer”: non un narratore, ma colui che sussurra storie alle persone, comunica metafore efficaci per spiegare attività complesse, dà una definizione semplice a un ruolo tecnico. Insomma trasforma obiettivi, prodotti e servizi in snodi narrativi. Saranno poi le persone a generare il racconto collettivo. E così il particolare (la scelta di un’azienda) diventa parte della realtà.
Le storie aprono "spazi di collaborazione"
Quando IBM vendeva pc e server, le “storie” potevano essere bollate come una strategia di marketing. Ora questa semplificazione non vale più. Il prodotto di punta dell’azienda statunitense è l’intelligenza artificiale Watson, che ha applicazioni in moltissimi campi: dalla neurolinguistica, alla biotecnologia, fino all’automazione dei customer sevice. Gli spazi di collaborazione tra team che parlano linguaggi tecnici diversi è enorme e, senza aver costruito uno spazio di comprensione, la tecnologia rimane inerte: rischia di non arrivare mai sul mercato, di non avere benefici per nessuno. Mentre, quando il racconto diventa una dimensione strategica e permea i processi, le storie si trasformano nel futuro verso il quale tendere. E ciò vale per ogni cosa, da una grafica alla progettazione di un servizio. E così la realtà narrativa collega gli sforzi dei team al bene dell’umanità, perché una delle massime ambizioni di Watson è combattere il cancro.
Non solo business unit, ma laboratori di narrazioni
Più che un case history, parlare del chief storyteller di IBM è un pretesto. Perché molte realtà si stanno muovendo in questa direzione, per dare senso alle trasformazioni aziendali che, spesso, implicano mutazioni radicali. Microsoft, per esempio, ha spostato gran parte del suo focus su un mix di cloud computing, intelligenza artificiale e servizi B2B. Anche in questo caso la complessità dei servizi è aumentata e la loro applicazione non è immediatamente visibile. E un altro chief storyteller, Steve Clayton, dal 2014, sta agganciando elementi narrativi ai gangli aziendali di Microsoft, tanto aver realizzato una piattaforma: Story Labs, nella quale chiunque, anche i responsabili di Business Intelligence, inseriscono il loro ruolo in azienda in una prospettiva globale. E così il loro team può visualizzare un impatto sul mondo, come cambiare il mondo del giornalismo o il gioco Minecraft ridisegna gli spazi urbani. “Non significa celebrare sé stessi o un prodotto ma raccontare come i prodotti hanno un impatto sul mondo”, precisa Clayton in un’intervista.
Il racconto non è un format
Diversa declinazione, stesso contesto. A fine giugno 2018 Facebook ha lanciato Grow, “un magazine cartaceo (sic!) di alto profilo per business leader”. “Ma cosa c’è di diverso rispetto ai vecchi house organ?”, si chiede CNN Money Ancora una volta una (possibile) visione del futuro. L’azienda di Mark Zuckerberg non ha bisogno di spiegare cosa fa, la sua tecnologia non è complessa come l’edge computing di Microsoft. Ha necessità di mettere in relazione persone e, ancora una volta, creare un sistema (una visione del business e dell’economia, in questo caso), che sia accettato da un numero sempre maggiore di persone. Una visione, appunto, che è necessaria soprattutto in questo periodo, dopo lo scandalo Cambridge Analytica, quando l’uso massiccio di dati su cui si fonda il business di Facebook, ha bisogno di essere ri-raccontato. Oltre i post e i like. Più importante perfino del mezzo (il digitale).
Lo storytelling per sentirsi parte del mondo
Torniamo a Louis Richardson e leggiamo al sua qualifica completa, può darci un ultimo indizio: Chief Storyteller, Watson Customer Engagement. Insomma, per “engage” – e cioè coinvolgere – le persone, ci si sta muovendo sempre di più verso una visione sistemica, verso un racconto che si avvicina sempre di più al fascino della storia dell’umanità.