Siamo tutti interdipendenti, in una “rete del dare e del ricevere

Una Visione completamente diversa Siamo tutti interdipendenti, in una “rete del dare e del ricevere"

Non limitiamoci a tollerare le reti informali nelle organizzazioni. Valorizziamole, per migliorare il benessere delle persone e l’efficienza.

Il pensiero della comunità attraversa tutta la modernità e acquisisce un ruolo centra- le soprattutto in ambito filosofico e sociologico almeno a partire dalla Rivoluzione industriale. Di fronte a questa “grande trasformazione” (K. Polanyi) i contemporanei rimangono non solo stupiti per il progresso in campo tecnologico ed economi- co, ma soprattutto angosciati per il rapido deterioramento delle condizioni di vita delle masse urbanizzate e per la crisi delle tradizionali forme sociali. È il sociologo tedesco Ferdinand Tönnies a consegnare ai posteri la dicotomia comunità/società come stilema intellettuale a partire dal quale il pensiero della comunità prende le mosse. La comunità è un organismo nel quale le singole parti si relazionano in una co-appartenenza reciproca e solidale che le rende in linea di principio insostituibili. La società è un meccanismo il quale, se si possiede il necessario know-how, si può smontare e rimontare a partire dalla fungibilità delle parti. La comunità è calda in quanto attenta ai bisogni dei suoi propri membri, la società è fredda in quanto valorizza il merito e la funzionalità dei membri relativamente ai suoi propri scopi.

In Tönnies la comunità gioca tendenzialmente il ruolo di un ideale utile per acqui- sire una prospettiva esterna alla società coeva a partire dalla quale poter individua- re i limiti della società e studiarla con un approccio critico. Ciò non significa tuttavia – tanto per Tönnies quanto per la sociologia più recente – che nella società moderna non si possano riconoscere forme di vita comunitarie. In realtà in tutte le società conosciute comunità e società si danno sempre insieme in un intreccio che assume le forme più varie e che si può sciogliere solo sul piano teorico. Senza dimenticare che la nozione di comunità può e deve essere considerata anche nella sua intrinseca ambivalenza. Il rischio di ogni forma di vita comunitaria, infatti, è quello di sviluppare il senso della propria identità nella direzione di un eccesso di immunizzazione nei confronti di ciò che è altro da essa. Tale sospetto e timore nei confronti di ciò che è diverso e apparentemente inassimilabile non produce solo una chiusura identitaria della comunità, ma bensì genera un tradimento della propria funzione fondamentale, che è quella di sostenere, secondo la logica della relazione sussidiaria, i propri membri nel loro percorso di vita che in genere, per sua natura, oltrepassa i confini comunitari. L’eccesso di immunizzazione si accompagna, cioè, a una limitazione dell’autonomia dei membri della comunità che ne compromette la realizzazione personale. Guardando ai fatti di cronaca, ciò accade non di rado soprattutto nelle comunità formate da minoranze di carattere etnico-religioso che vivono all’interno delle società liberali contemporanee.

Per non perderci nell’intrico della comunità è opportuno rivolgersi ai più recenti sviluppi della riflessione di uno dei maggiori filosofi morali contemporanei, Alasdair MacIntyre. Noto come uno dei massimi teorici del neo-comunitarismo, il filosofo scozzese ha ripensato la nozione di comunità alla luce di una visione antropologica che guarda all’essere umano nella prospettiva della sua essenziale dipendenza e vulnerabilità. Tale mossa teorica presuppone che lo sguardo sociologico si focalizzi innanzitutto sulle relazioni sociali che sostengono la vita umana attraverso le sue diverse fasi, le quali hanno un carattere più o meno informale. Queste relazioni, chiamate da MacIntyre reti del dare e del ricevere, obbediscono a una logica di gratuità e sono in grado di generare motivazioni razionali per l’azione sociale che oltrepassano i confini di ciò che si fa per mero calcolo utilitario o in ottemperanza delle leggi positive. Tali reti includono in genere non solo i propri familiari e parenti e gli amici, ma anche i colleghi di lavoro e sono capaci di accogliere a volte pure coloro con i quali entriamo in contatto per affari e persino gli estranei. Esse stanno alla base di ogni comunità politica in quanto abilitano i membri della comunità a gestire la propria vulnerabilità al fine di ottenere quei beni materiali e relazionali dei quali hanno bisogno per rea- lizzarsi umanamente. Si tratta di qualcosa di pre-politico senza il quale istituzioni sociali (quali il mercato) o politiche (quali lo Stato) non reggerebbero.

Le reti informali del dare e del ricevere animano la vita delle persone che lavorano all’interno delle organizzazioni

Le reti del dare e del ricevere si reggono sull’esercizio di un insieme di virtù intellettuali e morali che MacIntyre racchiude nell’espressione giusta generosità per indicare che la mera giustizia, per come essa è comunemente intesa, non è sufficiente. La giusta generosità si esprime attraverso atti di cura reciproca tra persone che considerano i bisogni altrui come buone ragioni per agire, senza calcolare in anticipo l’ampiezza e la portata di tale relazione di cura. In tale prospettiva occorre sottolineare che MacIntyre intende giustamente le virtù come atti che, anche quando hanno un carattere essenzialmente relazionale, permettono alla persona che le pratica di realizzare, seppur solo parzialmente, il suo proprio bene, cioè la felicità. Ecco il motivo che sta alla base della forte carica motivazionale della virtù, la quale è ben più potente del comune altruismo.

Se è quindi innegabile che le reti informali del dare e del ricevere animano la vita delle persone che lavorano all’interno delle organizzazioni formali di carattere eco- nomico e politico, queste si trovano di fronte a un’alternativa: limitarsi a tollerarle oppure cercare di valorizzarle in sinergia con un welfare aziendale sufficientemente intelligente da rispettare la natura intrinseca di quelle reti per le quali un eccesso di formalizzazione risulterebbe deleterio. Tutto nell’ottica di un aumento del benessere materiale e morale dei membri delle organizzazioni che potrebbe avere ricadute positive anche sul piano dell’efficienza. Organizzazioni siffatte, incoraggiate ad aprirsi verso le forme di vita comunitarie che le precedono e le circondano e a valorizzare sussidiariamente le reti del dare e del ricevere, potrebbero forse dare un senso più preciso alla prospettiva ideale del community capitalism.