Comunità di… l’attributo fa la differenza

Una Visione completamente diversa Comunità di… l’attributo fa la differenza

Comunità è un concetto potente ed evocativo, ma anche problematico. Per superarne l’ambiguità si può declinare la comunità in senso progettuale e prospettico, decidendo con chi, come e verso quale direzione andare.

Comunità è un termine sempre più utilizzato negli ultimi anni, anche nel campo delle organizzazioni. Come mai?

Viviamo nella società dell’individualismo imperante, dove la disgrega- zione e la frammentazione sono elementi strutturali. In questo contesto, il titolo di un famoso libro del sociologo Zygmunt Bauman è emblematico: “Voglia di comunità”. Abbiamo bisogno di tornare alla comunità proprio per superare questo individualismo esasperato, però la voglia di comunità può nascondere anche aspetti negativi.

Secondo Ferdinand Tönnies, primo studioso che ne ha parlato in senso sociologico, la comunità può essere calorosa, accattivante, protettiva, ma protegge ed esclude allo stesso tempo. La comunità implica un confine che stabilisce chi sta dentro e chi fuori; in questo senso esclusivo, le comunità possono presupporre conflitti e generare nazionalismi e rigurgiti patriottici. Zuckerberg, il fondatore di Facebook, parla di “comunità globale” ma un conto sono i social e le comunità “virtuali”, altra cosa la realtà.

Nella società contemporanea le comunità sono spesso strumentali e temporanee; sempre Bauman parla di comunità-guardaroba o comunità-gruccia: sono comunità à la carte, che durano il tempo di uno spetta- colo. Siamo uniti e ci sentiamo profondamente parte di un gruppo con sentimenti di appartenenza e di solidarietà importanti ma per un breve periodo, come quando si partecipa a un concerto o a qualche raduno coinvolgente. Quando lo spettacolo finisce, ci dimentichiamo degli altri, di quelli con i quali abbiamo condiviso tutto fino a un’ora prima, e torniamo alle nostre individualità.

C’è poi l’aspetto positivo delle comunità, che di volta in volta viene declinato con attributi del tutto particolari. Per esempio, le cooperative di comunità: si basano su un territorio che non è ad uso esclusivo di chi ne ha diritto per tradizione, ma sulla solidarietà tra portatori di interessi riconosciuti. In questo senso il termine comunità non è escludente ma includente, non è marginalizzante ma anzi produce effetti positivi.

In generale, il rischio di parole come “comunità” o “sostenibilità” è di diventare slogan: termini evocativi che però nascondono altre logiche e si rivelano strumenti inadeguati per sistemare ciò che non va.

La prima suggestione che ne ricaviamo è che “comunità” sia una parola che ha bisogno di essere connotata…

Serve un attributo per declinare la comunità, ma non basta. Bisogna anche riempirla di contenuti adeguati: così diventa una prospettiva alter- nativa a un modello di società dominante che ruota attorno all’individuo portatore di interessi particolari. Anche se siamo al limite dell’ossimoro, potremmo dire che il riferimento comunitario è di carattere tendenzialmente universalistico, che include interessi non di tipo utilitaristico e sganciati dalla logica del profitto. In questi termini la comunità offre una prospettiva capace di guardare ai valori solidaristici della gratuità e della vera sostenibilità.

Se ci chiediamo “comunità di che cosa, di chi e per che cosa”, allora si riesce anche a mettere a punto un’idea capace di proporre qualcosa di alternativo.

Di potente ed evocativo nel termine comunità c’è l’idea che non si possa ridurre tutto all’individuo

Quanto conta l’impegno per rilanciare il termine comunità?

L’impegno è centrale. Nella comunità intesa da Tönnies ci si finiva per nascita, mentre oggi si può scegliere di farne parte, ma abbiamo anche la possibilità di adottare una deriva solipsista. Stare da soli può avere un peso, ma non un costo, mentre scegliere di stare in una comunità ha un costo: vuol dire impegnarsi per qualcosa, per qualcuno, per un gruppo che trascende la dimensione soggettiva. Ed è difficile, in una società che ci ha addestrato all’individualismo.

Le comunità sembrano fornire una prospettiva per affrontare tante sfide odierne. Ma come fare per non cadere nelle trappole che ha descritto?

Viviamo in un mondo sempre più complesso, oltre che complicato, e la sfida della complessità non si vince singolarmente. Però il rischio è adottare un approccio da comunità procedurale: si sviluppano soluzioni condivise per risolvere problemi, che però non è detto che rafforzino il senso comunitario.

Le procedure sono importanti, ma servono anche i valori e sapere con chi voglio creare una collettività che, insieme, individua una direzione che punta al miglioramento della qualità della vita, di un benessere il più ampio e il più inclusivo possibile.

La comunità deve essere una prospettiva germinale: è un seme e – come tutte le cose che crescono – va gestita, accompagnata, accudita. È sbagliato immaginarsi una comunità già data, è una prospettiva che si costruisce e va allenata.