Una Visione completamente diversa Visione multidimensionale e spettri di partecipazione
Le comunità trasformative si estendono su più dimensioni, nelle quali le persone non agiscono come “mucchi indistinti”, ma – con un nuovo approccio progettuale – possono intervenire a diversi livelli di partecipazione.
Le comunità trasformative sono naturali o artificiali? Sono spontanee o frutto di un disegno intelligente? Sono inclusive o esclusive? Sono alcune domande che hanno accompagnato il nostro percorso per realizzare questo numero di Weconomy. E ci hanno condotto a innumerevoli vicoli ciechi. Finora. Perché stavamo percorrendo strade tecnologiche, procedurali, lineari, fatte di scelte binarie. E le comunità trasformative non sono mai binarie. Avevamo invece bisogno di una visione diversa.
Come abbiamo accennato, le comunità trasformative sono sistemi viventi. Che hanno bisogno delle giuste condizioni per crescere e prosperare. Non sono astratte, ma sono sempre situate: in luoghi, ambienti e territori. Anziché pensarle come un macchinario con ingranaggi da oliare, immaginiamole come una foresta, i cui alberi continuano a crescere, con radici interconnesse che scambia- no nutrienti. E gli alberi possono continuare a proliferare per migliaia di anni senza andare incontro all’obsolescenza programmata, stabilendo relazioni con altri abitanti di un ecosistema. Gli alberi di una foresta possono essere piantati artificialmente o crescere spontaneamente, possono includere varie specie viventi ed escluderne altre, a patto che siano compatibili con l’ambiente che abitano, nel quale fioriscono e si adattano. E se il contesto cambia, sono in grado di evolversi. Ci interessano queste connessioni tra natura e persone (o, sarebbe meglio dire, agentività) perché sono generative di nuove relazioni, come racconta Eduardo Kohn in Come pensano le foreste e perché danno forma a modelli alternativi di sviluppo, indagati da Anna Lowenhaupt Tsing in Il fungo alla fine del mondo.
Oppure, ancora, possiamo immaginare le comunità trasformative come organismi, in cui le cellule si distribuiscono in ruoli diversi, a seconda che appartengano al sistema nervoso o all’apparato circolatorio. Insomma, le comunità trasformative non sono semplicemente composte di unità discrete messe in rete, ma sono fatte di elementi più o meno porosi, che inglobano nutrienti, con varie forme di specializzazione e vari gradi di intervento. Sono queste diversità di ruoli e funzioni che permettono a un organismo di svolgere azioni complesse e coordinate.
Con questo nuovo sguardo possiamo tornare alle domande iniziali, e affrontarle con una prospettiva profonda. Se le comunità trasformative sfuggono a concetti binari, su quali elementi possiamo proseguire la nostra esplorazione? Come dare forma a concetti che – seguendo la metafora vitale – evitano la necrosi della comunità o la colonizzazione da parte di organismi tossici?
Tra forme multidimensionali e spettri di partecipazione
Abbiamo individuato tre dimensioni, che ci aiutano a inquadrare la rilevanza e gli spazi di azione delle comunità, in un passaggio che potremmo definire di framing.
Ma, per comprenderne il potenziale trasformativo, non basta. Le comunità sono abitate e partecipate, è questo uno dei principali elementi che le differenzia dalle piattaforme che, semplicemente, connettono le persone. E allora diventa impor- tante comprendere e progettare azioni abilitanti per le comunità. Perché, a partire da questo punto di vista, si possono attivare dinamiche di interazione, scambio, gestione delle risorse e di governance che permettono di moltiplicare gli scambi e le relazioni di comunità. Ed evitare di imporre tutte quelle forme di partecipa- zione binarie che potremmo riassumere così: “se partecipi alla comunità devi fare determinate azioni, oppure puoi ritenerti fuori”. Queste modalità rigide, benché partano dalla necessità di incentivare contributi attivi, portano invece a limitare le forme di coinvolgimento, escludendo nuove possibilità e quindi evoluzioni fu- ture. È un problema indagato in maniera interessante da Henry Mintzberg che, nell’edizione aggiornata di Understanding Organizations… finally!, mostra la complessità del pensiero comunitario nelle organizzazioni, sospeso tra la necessità di isolamento (che ne fa sopravvivere gli obiettivi, fino all’implosione) e assimilazione (che genera connessioni, ma dissolve l’unicità originaria).
Allora può essere più utile rievocare il celebre articolo A Ladder of Citizen Participation della sociologa Sherry Arnstein e parlare di spettri di partecipazione, che si definiscono unendo due elementi: i ruoli che abitano le comunità trasformative e le azioni che esse generano. Parliamo di “spettri” perché questi ruoli non sono scolpiti nella pietra: possono cambiare con il tempo, sfumarsi, riadattarsi e sovrapporsi. Perché ciò che conta davvero è non far sentire le persone parte di un mucchio, ma abilitarle, per liberare possibilità di agire e cioè: contribuire in modi specifici e con- testi specifici, con strumenti specifici.
Prima di addentrarci ancora, è necessaria un’ultima precisazione, che riguarda le di- rettrici delle modalità di partecipazione. Nella tradizione, le dinamiche di scambio si muovono dall’alto verso il basso o viceversa (top-down o bottom-up). E ciò implica un giudizio di valore scivoloso: le prime sono impositive e autoritarie; le seconde sono libere e democratiche. Il nostro compito è superare questa contrapposizione, per adottare un punto di vista vitale. Così nasce un nuovo obiettivo: in che modo tutti gli abitanti di una comunità possono prendersene cura? Parlare di cura significa creare le condizioni per far sì che accada qualcosa di più grande, e alimentarlo. Allo stesso modo, comporta generare degli anticorpi che mantengano la comunità rilevante per chi ne fa parte. Lavorare sulla cura e sulle condizioni abilitanti implica asimmetrie nella partecipazione ma – a questo punto – le azioni delle persone non si fondano più su logiche di potere o su gerarchie, piuttosto “alimentano una forma di attenzione sociale nel lungo termine premurosa per sé stessi e per gli altri”, per usare le parole di Bernard Stiegler, in Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni.
Orizzonti progettuali multidimensionali
Il nucleo
È la dimensione che fa sviluppare il senso di appartenenza a una comunità trasformativa. Fa sì che le interazioni siano (e continuino a essere) rilevanti per i partecipanti.
È densa perché preserva la rilevanza della comunità. Cambia lentamente. Trasforma linguaggi e conoscenze astratte in qualcosa di concreto.
Ruolo abilitante: converger
L’azione principale delle persone che intervengono nel nucleo è far sì che tutti i partecipanti sappiano qual è la direzione condivisa escludendo gli elementi che intaccano la vita della comunità.
Contesti e pratiche abilitanti
Questa dimensione contiene gli strumenti, gli ambienti e le occasioni che situano valori, linguaggi e sfide organizzative in territori fisici, digitali o ibridi. È porosa perché dialoga con gli ecosistemi con cui interagisce.
Reagisce ai bisogni dei partecipanti trasformando il concreto in tangibile.
Ruolo abilitante: builder
In questo caso le persone hanno la responsabilità di dare forma a nuove pratiche, modellizzare spazi e strumenti che rendono possibile la partecipazione
Animazione e condivisione
Questa dimensione alimenta le interazioni delle comunità trasformative, dove si alimentano i legami forti e deboli.
Contiene i contenuti, le conversazioni, gli incontri e i confronti.
È brulicante, perché libera e recepisce stimoli dall’interno e dall’esterno. E trasforma il tangibile in agibile.
Ruolo abilitante: weaver
Si occupano di facilitare gli scambi e aumentare la frequenza, la velocità e la numerosità delle connessioni tra i partecipanti.
Ascolto e attesa
Una dimensione esterna alle comunità: apre a nuove possibilità di partecipazione per chi condivide il progetto comune. Accoglie membri potenziali e forme di contribuzione alternative.
Ruolo abilitante: listener
Questa forma di partecipazione è ancora indefinita, ma non manca di azione: queste persone condividono il progetto comune, ma attendono occasioni e modalità per liberare il proprio potenziale nella comunità.
E questo concetto di cura si sostanzia declinando varie forme di impegno e responsabilità comunitarie. Per esempio:
- chi è nelle condizioni di creare una risorsa (che può essere una piattaforma, uno spazio fisico, un evento ecc.) ha la responsabilità di metterla a disposizione dei partecipanti;
- chi ha uno sguardo più generale sul progetto che la comunità persegue, ha la responsabilità di definire i ruoli necessari a elaborarlo, diffonderlo e farlo evolvere;
- ogni partecipante alla vita della comunità ha la responsabilità di continuare a diffondere informazioni, esperienze e pratiche con cui entra in contatto, a seconda delle proprie capacità.
E ora finalmente possiamo entrare nel vivo, per approfondire le dimensioni delle comunità trasformative e gli spettri di partecipazione che esse generano e alimentano.
La prima dimensione: il nucleo. È il centro di gravità delle comunità trasformative. Contiene valori, linguaggi, la conoscenza e tutti quegli elementi con un ruolo aggregante e attrattivo. È ciò che fa sviluppare il senso di appartenenza. È un elemento fondamentale per far sì che le interazioni all’interno della comunità siano (e continuino a essere) rilevanti per chi vi partecipa. Inoltre, costituisce la base dei legami-ponte che la comunità può costruire verso l’esterno. Il nucleo non è necessariamente pre-esistente. Va scoperto e ascoltato, se la comunità già esiste. Oppure costruito e consolidato, se si tratta di una comunità nascente, nella quale si stanno aggregando bisogni di una collettività. Le comunità trasformative sono in costante movimento, ma questa prima dimensione è la più densa e lenta a cambiare. Per questo è importante che il nucleo sia condiviso e accettato. Perché, una volta costruiti linguaggio e obiettivi comuni, devono essere stabili nel tempo, per fungere da “magnete di aggregazione”.
La partecipazione nella prima dimensione: i ruoli di convergenza. Chi interviene in questa prima dimensione ha l’obiettivo di trasformare qualcosa di astratto in concreto. E quindi di tradurre nel contesto in cui opera la comunità – per esempio – i valori di un’organizzazione. In questo caso l’azione principale delle persone è la con- vergenza e cioè far sì che tutti i partecipanti sappiano qual è la direzione condivisa, escludendo quegli elementi che possano intaccare la vita della comunità.
La seconda dimensione: i contesti e le pratiche abilitanti. Una comunità si aggrega intorno a qualcosa di condiviso (il nucleo), ma è ancora inerte. Ha bisogno di spazi, pratiche, occasioni e strumenti per diventare reale. E non si tratta solo di manifesti o dichiarazioni di intenti. Perché le comunità trasformative sono sempre situate: esisto- no in uno o più luoghi e si attivano in contesti specifici. Questa seconda dimensione svolge una funzione specifica: usa tutte le risorse necessarie per rendere tangibili per i partecipanti tutti gli elementi di concretezza del nucleo. È una dimensione porosa e ibrida perché mantiene sempre attivo un dialogo con l’esterno. Infatti, una comunità trasformativa risiede sempre in una città, in un quartiere, in un’organizzazione. Si tratta di un elemento che permette di accogliere e adattare nuovi stimoli, trasformandoli in qualcosa di tangibile e utilizzabile dai partecipanti, sempre in coerenza con il suo nucleo fondativo. Questa dimensione ha un ruolo evolutivo importante, perché intorno a nuove pratiche possono nascere nuovi linguaggi, può formarsi nuovo senso di appartenenza, e quindi può continuare a nutrirsi la prima dimensione, cioè il nucleo.
La partecipazione nella seconda dimensione: i builder. I ruoli che abitano questa dimensione sono i builder: si occupano di dare forma a nuove pratiche e modellizzare tutti gli spazi, le piattaforme, gli strumenti e i rituali per metterli a disposizione dei partecipanti, affinché possano “toccare” e mettere in pratica nella vita quotidiana gli obiettivi della comunità.
La terza dimensione: animazione e condivisione. Dopo essersi formati a seconda delle necessità della comunità, le pratiche e i contesti hanno bisogno di essere vissuti. In questa terza dimensione, quindi, ciò che viene reso tangibile nella seconda dimensione si trasforma in agibile. È qui che si alimenta la vita brulicante della comunità: e cioè tutti i commenti, i dialoghi, gli incontri e i confronti.
La partecipazione nella terza dimensione: i weaver. Questa terza dimensione è abitata dai weaver, i tessitori che si occupano di facilitare gli scambi, sviluppare connessioni tra i partecipanti, ascoltando le loro necessità. Si prendono cura e suppor- tano chiunque faccia parte della comunità. È una funzione essenziale, perché la loro capacità di dare e ricevere feedback può intercettare nuove necessità e bisogni ancora inascoltati e quindi richiedere nuove forme di espressione, nuovi strumenti e risorse che possono trasformarsi in pratiche emergenti, alimentando la seconda dimensione. Questa dimensione ha il massimo grado di porosità, perché è in grado di accogliere nuovi stimoli per tradurli in qualcosa di sempre nuovo e intercettare così nuovi partecipanti.
La dimensione esterna: ascolto e attesa. Le comunità trasformative non prosperano in spazi auto-conclusi. La loro natura porosa genera contatti anche con persone che – pur non avendo un ruolo attivo – condividono il progetto condiviso della comunità. Quindi, in questa dimensione esterna, troviamo due particolari forme di partecipa- zione: la prima riguarda chi beneficia della comunità con un’attenzione crescente. La loro forma di partecipazione è legata all’ascolto, alla ricerca di un’occasione utile per essere coinvolti. E diventare membri della comunità. E infine, al confine estremo troviamo chi è curioso, ma non ha ancora maturato quel grado di comprensione per poter iniziare ad adottare il progetto comune. Questo ruolo è semplicemente in attesa di essere orientato.