Lost in virtualisation

Una Visione completamente diversa Lost in virtualisation

Nel secolo delle macchine, gli umani rischiano di perdersi e vagare nel nulla come semplici spettatori delle community popolate da agenti artificiali.

sintesi

Persi nelle community artificiali

Automazione della collaborazione, automazione della condivisione, automazione della discussione. La community degli algoritmi segna la fine della community degli umani? Potrebbe. Già oggi più della metà dei contenuti in rete è generata e moderata artificialmente. Ormai manca poco. Lo ripeto fino alla nausea da almeno 10 anni. Questo è il secolo delle macchine (incluso community delle macchine) e dei suoi servi (eccitati). ChatGPT e i suoi imitatori, o ispiratori (è pieno di servizi simili, anche se meno pompati dai media) sono pronti a prendere le redini dei nostri affari e della nostra vita e sono metaforicamente la soluzione finale della questione umana. Creare, generare. “È il punto di svolta dell’intelligenza artificiale”, gridano gli apostoli del nuovo messia artificiale. “Sa fare tutto”, insistono anche i discepoli (livello più basso di invasati). “ChatGPT scrive un testo su qualsiasi argomento in modo rapido e, spesso, migliore di un essere umano, persino saggi di livello accademico, ecco... ChatGPT scrive da solo i programmi per computer e l’utente deve solo capire cosa deve essere in grado di fare... ChatGPT può addirittura esercitare la professione di avvocato e ha anche superato l’esame di abilitazione per i medici... inginocchiatevi e adorate il Santissimo artificiale”. Bene, siamo a questo. Lo so. ChatGPT è come un assistente umano seduto accanto a voi che ha assorbito tutta la conoscenza (ovvio, da chi ha deciso come nutrirlo). È quindi in grado di creare, autonomamente, qualcosa di completamente nuovo: slogan pubblicitari, idee commerciali, sviluppo di prodotti o gestione delle persone. Figuriamoci gestire stupide community di umani. Anzi, a un certo punto, gli umani potrebbero anche perdersi e vagare nel nulla come semplici spettatori delle community popolate da agenti artificiali.

Già oggi più della metà dei contenuti in rete è generata e moderata artificialmente

Persi nelle community solitarie

Far parte di una community. Che bello. Nel linguaggio mitologico di Internet, gruppi di persone si incontrano, discutono e si scambiano informazioni attraverso gli infiniti strumenti della rete. Ma è così? Quando un sindacato come CGIL o Manageritalia dice di sé che “siamo una community rilevante”, pensa a qualcosa di molto fisico (benché supportato digitalmente). Ma per condividere bisogna partecipare e per partecipare bisogna esserci, molto meglio se nella realtà fisica. Ora, bisogna prendere atto che quella virtuale mette in scena miliardi di isolate persone che condividono miliardi di isolati punti di vista da condividere miliardi di volte. Altroché partecipazione. Ora sarà anche colpa della pandemia (e relativo isolamento), ma un recente sondaggio del Wall Street Journal sull’evoluzione dei valori negli Stati Uniti ha messo in luce un dato che dovrebbe far riflettere sulla propensione all’impegno nella comunità. Se nel 2019 l’engagement era importante per il 62% degli intervistati, nel 2023 lo è solo per il 27%. Una nicchia, insomma. Certo non aiuta quell’universo parallelo, immersivo, dove adorare mondi popolati dai nostri avatar. Quello strano luogo e community chiamato Metaverso dove ognuno è disperso e perso. Il termine, come molti magari sanno, è stato “scippato” dal romanzo del 1992 Snow Crash di Neal Stephenson, il Quentin Tarantino della fantascienza. Qui, in un futuro distopico, la gente fugge dalla tetra realtà per stordirsi in un enorme universo parallelo di realtà virtuale progettato spazialmente. Utopia paradisiaca o distopia infernale? Tendo per la seconda, anche se potrebbe fare la fine di SecondLife e sopravvivere solo come strumento di modellizzazione e sperimentazione (gemelli digitali) per le imprese.


Persi nelle community di (non) senso

Oggi ci si aggrega su macrotemi condivisi da tutti e divulgati da tutti i media. Mai una discussione. Mai un dubbio. Mai una critica. Domina il regno del verosimile e sì, uno spettro si aggira per i media. Lo spettro dell’inconsistenza delle informazioni ormai declassata a propaganda e/o disinformation (informazione intenzionalmente falsa) e/o misinformation (informazione accidentalmente falsa). Il Ministero della Verità futura si chiamerà verosimilmente The Federal Misinformation Act con sanzioni pecuniarie ai produttori di contenuti discutibili. Con la scusa di eliminare le informazioni false verranno eliminate tutte le informazioni che danno sui nervi a chi gestisce la giostra popolata da ebeti cittadini che girano in tondo sgranocchiando colorati messaggi sempre diversi ma uguali nella sostanza. Ora, alcuni di questi messaggi sono così buoni che mai vengono vomitati con disgusto. Tipo la parabola del buon samaritano digitale. Negli ultimi vent’anni, più o meno tutti hanno glorificato la tecnologia immateriale e i suoi immensi spazi in rete, fino alla recente esaltazione delle cosiddette transizioni gemelle (digitale ed ecologica). Infatti, di solito, transizione ecologica e transizione digitale vengono vendute da chi governa il mondo e l’economia come felice coppia. Io, invece, dico che sono inconciliabili. O l’una o l’altra. La tecnologia “immateriale” consuma oggi il 10% di tutta l’energia prodotta al mondo ed è altamente inquinante e inquietante, come mette in guardia un recente e documentato libro (uno dei tanti). Si chiama Inferno digitale ed è già eloquente nel sottotitolo: “Perché internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta”. Già, perché? Forse perché il digitale non è mai sazio di risorse e, anzi, fa a gara con noi umani per accaparrarsele. Forse perché Internet ci rende stupidi (vecchio libro di Nicholas Carr) e ci porta dritti nel Secolo della solitudine (recente libro di Noreena Hertz). Forse perché in tutto il mondo scienziati, governi, aziende e consumatori stanno collaborando per trasformare la Terra in un computer gigante e l’umanità in un enorme cervello comune connesso in rete e gestito dall’IA. O forse perché nell’omonimia si trovano risposte inaspettate. Ora, succede che poco tempo fa ho scoperto una pianta velenosa, altamente tossica, dal fiore elegante e seducente, molto usata anche in fitoterapia, che si chiama Digitale. Una pianta dal nome curioso e bizzarro derivante dal termine latino digitus, che significa dito, in riferimento alla caratteristica forma a ditale del suo scenografico fiore. Tanto bella quanto pericolosa. Esattamente come la tecnologia che ci ha abbagliati e sedotti in tutti questi anni. Senza senso.