Diventare interlocutori privilegiati e costruirsi una buona reputation

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Lo abbiamo già detto in un post precedente: nella reputazione la sfida più interessante non è tanto esporsi quanto offrirsi. Ma come questo si declina a livello aziendale e come un’impresa può gestire al meglio ciò che si dice di essa sia all’esterno che all’interno?

Che differenza c’è tra esporsi ed offrirsi? Ci si espone al freddo, a un pericolo, a dei rischi. L’aspetto più rilevante di questi esempi, però, non è il fatto che si tratta di circostanze ordinariamente negative, ma che sottolineano come l’azione dell’esporsi sia qualcosa di passivo. Ci prendiamo così come siamo e ci consegniamo a qualcosa (o a qualcuno). Chi si espone non lavora su di sé, non ‘prepara’ se stesso». Prepararsi a cosa? Sarebbe meglio chiedersi “prepararsi a chi?”

Non è una differenza di poco conto. Sappiamo benissimo che il nostro nome (o prodotto, o campagna, etc.) quando entra nelle maglie della Rete inizia a vivere di vita propria. Se ne perde il controllo. In realtà – e questo è bene tenerlo presente – tutto questo è già accadutoL’esposizione, cioè, è già in corso. Non è più tempo di chiedersi se sia possibile evitarla.

Resta da capire se il problema principale per la reputazione sia quello del suo controllo o piuttosto quello della sua consistenza. Non si discutono più solo la qualità o la funzionalità del prodotto o le dinamiche della costumer satisfaction. Il pubblico della Rete ormai vede sempre più l’azienda (e i suoi protagonisti) secondo una trasparenza radicale. All’ordine del giorno delle discussioni online spesso ci sono le personali vedute dei dirigenti sui temi (politici, etici o di costume) del momento, i quali altrettanto spesso hanno poco o nulla a che fare con il core business aziendale.

Quindi, che fare? Gettarsi anima e corpo nella costruzione e sorveglianza di (molteplici) identità sociali secondo un classico schema azione/reazione? Questa esigenza, peraltro, ha già fatto sorgere molte aziende specializzate in questo (come Brandyourself) e addirittura master universitari dedicati.

In un recente volume dal titolo “La Reputazione. Nel tuo nome, il tuo valore”, Isabella Corradini e Barbara Ferraris di Celle hanno raccolto una serie di contributi dedicati alla ‘reputazione’ mettendo in evidenza come questo tema incida non solo a livello dell’organizzazione aziendale stessa, ma coinvolga i perni stessi sociali ed economici stessi della sua azione: dalla fiducia interna alla competitività sul mercato. E se ‘tutto fa brand’, come recita uno dei brevi saggi del volume, è interessante andare a leggere a quali e soprattutto a quanti livelli dell’organizzazione un’azienda costruisce la propria reputazione…

Siamo già esposti, si diceva, e quindi il problema principale non è la difesa, ma in un certo senso l’attacco. Che significa certamente costruire una vera trasparenza aziendale, ma anche darsi da fare per offrirsi come interlocutori il più possibile privilegiati quando è di noi stessi che si parla. Non è semplicemente perché è di me che si parla che devo intervenire. Piuttosto: se si parla di me deve essere (più) interessante farlo (anche) con me: fare i conti con quanto io dico di me stesso.

Gli esempi migliori e più genuini di weconomy mostrano fino a che punto questa mossa in avanti di un’azienda possa evolvere fino a trasformarsi in vera e propria rete di collaborazione, giungendo perfino a ridisegnare il prodotto o il servizio stesso proposto dall’azienda. E un team che collabora in maniera creativa ha già risolto il ‘problema’ della reputazione, almeno di quella interna. Là fuori poi saprà meglio di altri che la fiducia che potrà guadagnare non sarà faccenda di una sola, geniale, azione o di una singola parola fantasmagorica, ma di una storia che saprà raccontare e far vivere a chi vorrà avere a che fare con lui.

Di reputazione e dell’importanza di offrirsi, abbiamo parlato anche in questo post.