Articoli CO: un plug-in per l'innovazione
È il momento di ripassare la terza lettera dell’alfabeto collaborativo: la C di Co. Coopetition, co-working, co-design, co-creation, co-development, non c’è quasi attività che non possa essere declinata “al plurale”. Scopriamo il caso Landshare.
Nel Quaderno #1 Auto, Beta, Co e, prima ancora, nel mini-focus di approfondimento We Cooperate, abbiamo trattato il prefisso “CO-“ come ‘fulcro’ dell’ingranaggio dell’innovazione collaborativa e partecipativa alla base della Weconomy.
La molteplicità delle possibili combinazioni del CO è raccontata in questo video realizzato all’inizio della nostra avventura: dagli ingranaggi nascono concetti come l’innovazione aperta, la progettazione partecipata, i consumi collaborativi, lo sviluppo comunitario, gli spazi collettivi etc.: il CO diventa un “plug-in” che è possibile installare su qualsiasi strategia e prassi aziendale.
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Di Collaborative Consumption, per esempio, ci siamo già occupati da diversi punti di vista, primo tra tutti la rivoluzione economico-sociale in atto a livello internazionale che ci sta portando verso la razionalizzazione delle risorse e dei beni collettivi per la ricerca di un sistema più sostenibile ed etico. Tema che abbiamo ribadito anche quest’anno, esplorando le possibili e necessarie integrazioni tra le ‘avanguardie della Weconomy’ e il Sistema della old-economy e raccontando alcuni dei tanti mondi che ruotano intorno alla “società del Noi”.
Questo speech di Rachel Botsman, innovatrice sociale e co-autrice del volume “What’s mine is yours”, racchiude il senso della sharing economy e le ragioni per cui, come sosteneva il Time Magazine già qualche tempo fa, tra le 10 idee smart che cambieranno il mondo c’è proprio la cultura dello “sharing is caring”:
Dall’iper-consumismo al consumo collaborativo, dall’ownership alla condivisione, dalla competizione alla cooperazione, insomma. Troviamo esempi di queste buone pratiche ormai in tutti i settori, non solo all’estero ma anche in Italia. Condivisione e Cooperazionesono ormai concetti trasversali estesi ai mondi fisici delle automobili (Relayrides, Getaround, Carpooling), delle biciclette (Bicibus), delle case (Airbnb) e dei terreni, del denaro (Eppela) e dello spazio (TheHub), come anche ai mondi intangibili delle competenze (OilProject) e del tempo (Sfinz) fino ad arrivare al boom delle piattaforme che permettono scambi e baratto attraverso monete virtuali (es. Dropis).
Il comune denominatore alla base di questi e altri casi – in cui l’individuo (perfino il leader!) riscopre la cooperazione e la condivisione di beni materiali ed immateriali, anche al fine di evitare sprechi – è sempre uno: la fiducia tra “sconosciuti” che la tecnologia sta favorendo.
Come racconta questo interessante articolo di approfondimento della Harvard Business Review, le tre tipologie di consumo collaborativo (sistema prodotto, riorganizzazione dei mercati, stili di vita collaborativi), sono forti di benefici sia sul piano personale sia collettivo, perché permettono una ownership condivisa che riduce il carico e i costi a livello personale e ottimizza l’impatto ambientale e sociale: “un’alternativa convincente alle tradizionali forme di acquisto e proprietà”.
A proposito di proprietà, un piccolo caso “storico” è quello di Landshare: marketplace virtuale, punto di incontro tra coltivatori, cultori e conoscitori del ‘do-it-yourself’ agricolo e proprietari di terreni e spazi da condividere (da parte di privati ma anche di scuole, enti, imprese o gruppi), con lo scopo di far diventare i terreni più produttivi e rendere la produzione di ortaggi e frutta locali accessibili a tutti.
Il progetto ha origine nel 2009 da un’idea di Hugh Fearnley-Whittingstall, chef e personaggio televisivo britannico conosciuto per la serie tv “River Cottage” di Channel 4, in cui racconta la sua avventura di contadino nella campagna inglese come sostenitore delle filosofie del downshifting e del back-to-basics.
Complici l’incertezza economica, ambientale ed alimentare, unite alla sensibilità britannica verso la razionalizzazione dei consumi e degli sprechi, la piattaforma conta oggi oltre 70.000 membri dai tre Paesi al momento coinvolti: Regno Unito, Canada ed Australia. Il funzionamento è molto semplice. Ce lo spiega direttamente Hugh in questo video:
Come spiega la sezione dedicata all’utilizzo della piattaforma, su Landshare è possibile, dopo essersi registrati come privati o come organizzazioni, iscriversi nell’elenco dei proprietari e coltivatori descrivendo il bene o il servizio che si è disposti a condividere, e con la possibilità di geolocalizzarli. Il tutto con l’ausilio di una mappa che permette un’istantanea di tutti i proprietari (L), coltivatori (G) e facilitatori (H) nell’area che interessa.
La piattaforma mette anche a disposizione, una volta che si sono presi accordi telematici tra proprietario e coltivatore, dei template che favoriscono le intese e regolarizzano la cooperazione:
Il Landowner è il proprietario dello spazio da coltivare ed ha accettato di permettere al Grower (coltivatore) di condividere lo spazio al fine di coltivare frutta e verdura nel terreno disponibile a partire dalla data di sottoscrizione del presente contratto, in cambio di una percentuale del (inserire la %) di tutti prodotti ortofrutticoli prodotti da quel terreno (sulla base del peso delle parti commestibili della frutta e verdura), che devono essere forniti al proprietario il giorno in cui viene effettuato il raccolto da parte del coltivatore (o il prima possibile dopo tale data, se il proprietario del terreno non è disponibile il giorno della raccolta).
Come leggiamo in questo estratto della bozza di contratto per il Regno Unito, il diritto di usufrutto da parte di chi coltiva la terra viene condiviso con il proprietario che potrà beneficiare di una percentuale concordata del raccolto. Un doppio livello di collaborazione che mette in comunicazione non solo la domanda con l’offerta, ma che permette anche di condividere i frutti (nel vero senso della parola!) di questo incontro.
Da questa trascrizione degli atti parlamentari del Governo Britannico leggiamo che l’iniziativa è arrivata ad attirare l’attenzione della Camera dei Lord inglese: Landshare è citata come risorsa estremamente utile per ovviare alla problematica della penuria degli allotments, i piccoli appezzamenti di terra pubblici che il Governo mette a disposizione dei cittadini.
Ma Landshare non è semplicemente un ‘marketplace’ che favorisce le pratiche della “agricoltura fai da te”, bensì un grande contenitore di informazioni, guide e casi-studio relativi a progetti di grande impatto sulle comunità locali: qui si trovano racconti su come sfruttare al meglio spazi altrimenti inutilizzati (roof gardening), iniziative di utilità sociale da parte di Fondazioni, realtà no-profit e scuole (Everton Active Family Centre, Rose Lodge Dementia Care Home and Beacon Primary School), ma anche di aziende per le loro iniziative di CSR (Ginsters e Polarisoft Ldt per la compensazione di CO2) e persino i Consigli (Newells Land Share).
E se anche nel nostro Paese emergessero analoghi progetti ad alto impatto sociale ed ambientale?