More-than-human: collaborare con nuove agentività

Una Visione completamente diversa More-than-human: collaborare con nuove agentività

Per immaginare e progettare comunità, solidarietà e relazioni in un mondo more-than-human bisogna abbandonare le categorie che hanno a lungo plasmato le nostre esperienze. Imparare da chi già lo fa è un buon punto di partenza

Nel thriller post-apocalittico della HBO The Last of Us, basato su un videogioco del 2013, un’epidemia di funghi trasforma gli esseri umani in violenti zombie man- gia-carne. Ma cosa succederebbe se immaginassimo microrganismi come batteri, virus e funghi non come minacce di un’altra pandemia come il Covid-19, ma piuttosto come nuove opportunità per comunità, solidarietà e relazioni more-than-human?

“Symbionts”, una mostra al MIT List Visual Arts Center, offre esattamente questa prospettiva, esplorando “cosa significa essere interdipendenti coinvolgendo i materiali viventi come collaboratori nella creazione”. Questa domanda chiave sul riconoscimento e la promozione dell’interdipendenza, sia con i materiali viventi sia con quelli artificiali, è essenziale da considerare nel momento attuale.

Se il conflitto e il caos vanno bene per la televisione, nel suo saggio “Carrier Bag of Fiction”, l’autrice di fantascienza Ursula K. Leguin avverte che le nostre storie potrebbero essere reimmaginate: anziché pensarle come proiettili e bombe, come recipienti per contenere diversi tipi di relazioni e futuri. Ciò vale anche per le tecnologie: se oggi vengono pensate come soluzioni e rimedi ai problemi attuali o come modalità di sorveglianza, controllo e profitto, potrebbero essere reimmaginate come luoghi di cura, resistenza e liberazione.

Un approccio more-than-human sfida le dicotomie ereditate dalle nozioni illuministiche occidentali ed europee sull’umanesimo liberale. Ci invita a destabilizzare le categorie di significato esistenti su molti aspetti della vita quotidiana, come il genere, la razza e l’abilismo – che, di fatto, sono i criteri che definiscono il significato di “essere umano”.

Per me, scienziata sociale disabile e ricercatrice nel campo del design, adottare questo approccio implica l’utilizzo di metodi auto-etnografici (a volte indicati anche come ricerca in prima persona) per indagare la mia interdipendenza con le macchine di cui ho bisogno per rimanere in vita – in particolare il microinfusore di insulina “intelligente” e un sistema di sensori. Significa anche esplorare lo sforzo necessario a manutenere questi sistemi, attraverso la creazione di sculture robotiche insieme all’artista interdisciplinare Itziar Barrio. Vuol dire infine imparare da studiosi, artisti e attivisti disabili il significato di abbracciare un’identità crip che guarda la disabilità come un’espansione dell’umanità, e non un deficit.

A causa delle loro esperienze vissute, le persone disabili sono molto più consapevoli nelle relazioni more-than-human, che spesso richiedono l’accesso a farmaci, tecnologie e comunità di cura. Tuttavia, noi disabili non siamo destinatari silenziosi o passivi (come molti vorrebbero che fossimo), ma diamo attivamente forma a queste relazioni attraverso l’umorismo, il do-it-yourself (DIY), il baratto per scambiare materiali, la disobbedienza alla medicalizzazione e, infine, la partecipazione a forme di attivismo a partire dai nostri bisogni.

Anche le tecnologie devono essere reimmaginate come luoghi di cura, resistenza e liberazione

Per progettare relazioni more-than-human, i designer devono sviluppare nuove capacità di partecipazione e sperimentazione del mondo, per esempio attraverso le performance, gli esperimenti ludici, lo storytelling speculativo e nuove forme intime di co-abitazione. Sono approcci che hanno molto da insegnarci su cosa significhi vivere insieme ai non-umani – molto di più delle pratiche classiche del design, incentrate su previsioni, simulazioni e test. Molti di questi aspetti sono già presenti nel campo del design, forse anticipati dalle pratiche di strategia e pianificazione più scientifiche e sistematiche.

Una maggiore attenzione alle dimensioni somatiche, affettive ed estetiche – che con- sentono l’esplorazione di tutti i sensi – offre un coinvolgimento più profondo con il mondo, favorendo un maggiore senso di appartenenza e di responsabilità. Ad esempio, ciò potrebbe significare andare oltre la vista e utilizzare il suono, il tatto, l’olfatto, il gusto e il movimento, per dar vita ad altri modi di relazionarsi con le persone (e le cose) con cui interagiamo ogni giorno nelle nostre case, quartieri e comunità.

Queste esperienze viscerali, incarnate e situate aprono possibilità alternative di vita e ci permetteranno di sperimentare il mondo in modi nuovi, dischiudendo domande, dilemmi e preoccupazioni diverse. Tali domande potrebbero include- re, ad esempio, il modo in cui scopriamo significati, l’appartenenza e lo scopo della nostra vita, quanto produciamo, consumiamo e/o creiamo e chi potremmo diventare in futuro. Per oltre dieci anni, i miei studenti di Designing Futures si sono posti queste domande utilizzando oggetti di scena, video, sceneggiature e performance, fino a costruire interi spazi di studio in cui sperimentare nuovi rituali di relazioni umane per dare vita alle loro idee.

Ma chi appartiene a questi futuri e chi ha la possibilità di plasmarli? Artisti e atti- visti sperimentano costantemente le possibilità di creare con nuovi materiali, siano essi artificiali, microbici, vegetali o animali. Attraverso questi progetti possiamo imparare cosa significa condividere l’agentività, la proprietà e la responsabilità delle pratiche creative, che si tratti di creare qualcosa con gli ultimi software o algoritmi, di far crescere/scartare oggetti negli studi artistici o di costruire fiducia ed equità con le comunità in progetti collaborativi a lungo termine.

I designer dovrebbero andare oltre le storie apocalittiche che prefigurano la nostra fine, anche se sembrano divertenti, dovrebbero svolgere un ruolo nello sviluppo di approcci more-than-human, creando relazioni più eque, generose e ricche tra esseri umani e cose inanimate. I designer dovrebbero abbandonare le categorie che hanno a lungo plasmato le nostre esperienze del mondo e imparare da persone che hanno sperimentato modi di vivere che sfidano tali categorie, riconfigurandole intorno a identità, comunità e narrazioni alternative. Tutto ciò sarebbe un ottimo punto di partenza.