Se non torneremo indietro, immaginiamo il futuro

Future Se non torneremo indietro, immaginiamo il futuro

Con la pandemia, il mondo del lavoro è entrato in una fase di transizione profonda. Ora è il momento di pensare in modo consapevole alle nuove strade possibili. Perché non possiamo riprogettare il passato.

Quando questo quindicesimo numero di Weconomy verrà pubblicato, molte cose saranno già cambiate nelle nostre modalità di lavoro. Ogni organizzazione avrà preso la propria strada: alcune avranno adottato appieno un modello remote first, altre avranno fatto di tutto per ridare centralità agli uffici che, comunque, non saranno uguali al pre-pandemia. Altre ancora avranno provato a far convivere gli ambienti fisici con quelli digitali: quest’ultimo è il cosiddetto modello ibrido, in apparenza il miglior compromesso, nella realtà la strada più complessa e inesplorata. Indefinita, come le nostre Unidentified Future Organizations.

E se le organizzazioni diventano UFO, non è sufficiente fermarsi a discutere di modalità di lavoro. Anche perché non diremmo niente di nuovo: il remote working esiste da più di 15 anni e ci sono miriadi di imprese che hanno sempre funzionato così. Hanno una remote culture, remote leader, team motivati e prospettive di successo. In una parola: erano pronte già prima della pandemia. Funzionano, non lo si può mettere in dubbio, perché hanno selezionato i propri talenti in base a caratteristiche che abilitano questa modalità di lavoro. GitLab, una delle più citate organizzazioni distribuite parla – a proposito dei propri collaboratori – di directly responsible individuals: persone con un elevato grado di autonomia e responsabilità. Qui nessuno lascia cadere nel nulla i progetti e, anche se non è stata definita dall’alto una ownership, le persone sanno come auto-organizzarsi. E questa è una delle chiavi essenziali del lavoro distribuito ma, per il momento, è utile non trarre conclusioni e continuare a esplorare le trasformazioni in corso, in tutta la loro ampiezza.

Perché c’è tanto da imparare da realtà come GitLab. Crediamo siano nuove specie di organizzazioni con cui entrare in contatto e confrontarsi. Ma non è l’unico modello di riferimento né è replicabile per tutti. E i cambiamenti che stiamo vivendo, invece, riguardano chiunque. Secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, durante la fase acuta dell’emergenza Covid-19, l’Italia è passata da 570 mila lavoratori remoti a 5,35 milioni. Sono cioè decuplicati. È stata una discontinuità rapida e diffusa che impatta tutte le generazioni, moltissimi settori, e tante tipologie di leader. Ed è arrivata anche per chi non era pronto. Doveva essere così perché non c’erano alternative. E ora ne stiamo vivendo le conseguenze. Sono arrivate a cascata moltissime forme di adattamento: dai laptop per tutti, al redesign degli uffici fino alla riorganizzazione dei ritmi di lavoro. Tutto ciò ha modificato i comportamenti delle persone ed ecco perché – crediamo – non si tornerà indietro.

Perché siamo nel mezzo di una trasformazione di lunga durata

Stiamo vivendo un cambiamento paragonabile a quello accaduto negli anni Trenta del Novecento. È in quella fase storica che sono nate le giornate lavorative di otto ore, hanno preso forma gli uffici moderni e le catene di montaggio hanno ridisegnato il mondo del lavoro. Tutto ciò non è accaduto in un giorno. È stato un processo di lunga durata. Questa tesi è stata espressa meglio di altri da Kevin Roose sul New York Times, in un articolo titolato YOLO Economy, emblematico acronimo di You Only Live Once (“si vive una volta sola”). Insomma, la pandemia ha messo in discussione il design del lavoro per come si è evoluto nel corso del XX secolo. Così oggi ci troviamo in un territorio inesplorato, dove la cautela è d’obbligo. Nicholas Bloom, per lungo tempo uno dei sostenitori più entusiasti del remote working, ha gradualmente cambiato opinione proprio mentre questo modello veniva adottato su vasta scala. Il noto economista della Stanford University ha così dato forma a una delle visioni più lucidamente conservative su questi temi. La sintesi del suo pensiero si può leggere in un’intervista sull’Harvard Business Review: Don’t Let Employees Pick Their Work From Home Days, la cui sintesi è: introdurre giornate di remote working nelle aziende è qualcosa che va fatto gradualmente, è un processo molto lento e deve venire dall’alto. A decidere non possono essere i collaboratori. Di certo è un approccio che mira ad arginare l’entropia, per evitare lo sfaldamento di una struttura che, nella maggior parte delle organizzazioni, è frutto di anni di sedimentazioni. Ma, ancora una volta, è un modo per dare una risposta burocratizzata e procedurale a qualcosa di più grande.

Le competenze, le abitudini, i rituali, le relazioni tra team, gli stili manageriali sono già in transizione. E non pensiamo si possa tornare all’ordine strutturandosi per introdurre qualche giorno di remote working pianificato. Invece, crediamo che ogni tentativo di circoscrivere il cambiamento rischi di rimandare al futuro la progettazione di una trasformazione consapevole, che le organizzazioni distribuite hanno già iniziato da tempo. Insomma, la forma del lavoro mette in discussione la forma dell’organizzazione, in un processo che potremmo definire “reticolarizzazione organizzativa” e che affronteremo più avanti nel Quaderno. È un punto di vista che speriamo possa ispirare tutte le imprese a trovare la propria strada, senza ripercorrere le tappe di un’evoluzione che alcune realtà stanno già affrontando. I percorsi evolutivi, infatti, non sono mai lineari: sono un albero intricato di possibilità, i cui rami conducono in moltissime direzioni. Nessuna è più bella di altre, ma ci sono alcune che portano più lontano.