Una Visione completamente diversa Da spettatori a spett-autori: impariamo dai videogame
Come insegna il mondo dei videogame, serve trasformare i membri di una community da spettatori a spett-autori per colmare il gap tra le aspettative degli utenti e il valore aggiunto offerto loro dall’esperienza comunitaria.
I videogame sono sempre meno un’esperienza solitaria e sempre più qualcosa di comunitario. Ma quali relazioni si instaurano dentro e fuori dai videogiochi?
I videogiochi sono diventati quasi esclusivamente giochi di comunità che, però, non sono geografiche ma di tematismi, di interessi, che nascono e muoiono velocemente, con modalità cooperative varie, sincrone e asincrone.
All’interno di queste comunità si formano vari livelli di relazione: la prima è quella del giocatore col proprio simulacro, l’avatar, l’alter ego. È un tipo di relazione molto forte, tra un umano e un non umano, riguarda il modo di rappresentarsi di ognuno e le diversità tra le identità percepite nella vita reale e come ci si autoidentifica all’interno di questi mondi. Si formano poi relazioni di collaborazione e di gruppo, a volte anche delle gerarchie, in tutti quei giochi che necessitano di una suddivisione in clan o gilde, come World of Warcraft o Clash Royale.
Infine si creano delle relazioni anche tra chi ama un gioco e i campioni di quel gioco: è tipico del mondo degli e-sport, degli streamer, degli youtuber e dei content creator, dove si creano le stesse dinamiche di altri mondi, come quello degli sport fisici.
Siamo passati rapidamente da un entusiasmo per il Metaverso a una rapida disillusione. Eppure, in questo macro-mondo esistono comunità che continuano a prosperare (come Roblox, Fortnite, Minecraft)… Quale consiglio ti senti di dare alle organizzazioni?
Al momento, gli unici Metaversi popolati riguardano i videogiochi. Altre piattaforme che si autodefiniscono Metaversi hanno pochi utenti attivi e lo stesso vale per tutti gli ambienti che le aziende stanno provando a creare in casa: non sono altro che delle riproposizioni 3D e incomplete del mondo reale.
Credo che la replica delle logiche preesistenti in un nuovo contenitore non possa funzionare. Le aziende devono ripensare il contenuto: come si muovono le persone nello spazio, cosa devono fare, soprattutto che poteri possono avere. Un punto nodale è che le piattaforme dei videogiochi hanno ceduto una parte di potere alla comunità. E quindi, facendo un parallelismo col mondo organizzativo, vuol dire che il dipendente o il consumatore dovranno avere un ruolo diverso. Questo però significa intervenire sulla missione e la visione di un’azienda. E al momento nessuno è disposto a farlo.
Quindi secondo te, quando si deve parlare di questi ambienti immersivi, la dinamica figlia dei videogame è imprescindibile…
Un videogioco funziona quando sei costantemente chiamato a prendere decisioni. In sostanza avviene un triplice passaggio: dall’idea di spettatore, a quella di spett-attore e poi spett-autore. Senza questa dinamica, è difficile sopravvivere per questi nuovi ambienti comunitari aziendali. Chi entra in questi mondi deve poter co-creare, prendere parte alle decisioni, non solo con creazioni “ornamentali” come scegliere la maglia del proprio avatar.
Ci sono alcuni Metaversi videoludici che funzionano e ci sono alcuni brand e organizzazioni che, anziché creare un proprio Metaverso, provano a esplorare quelli già esistenti, lasciandosi contaminare. Come valuti questa scelta?
Ha molto più senso esplorare mondi che già esistono piuttosto che creare il proprio. Al momento tutti i brand che ho visto crearsi il proprio Metaverso si scontrano con una partecipazione molto bassa. La domanda è sempre la stessa: perché io – esterno – dovrei entrare in una comunità creata da un brand, che percepisco come indirizzata, commerciale, voluta dall’alto, probabilmente noiosa e con un millesimo delle interazioni disponibili in altri spazi già collaudati? Però mi rendo anche conto che non tutti possono andare su Fortnite o Roblox, che hanno un certo target. Al momento manca una terza strada.
Provando a ribaltare la domanda: cosa suggeriresti a un brand per costruire community coinvolgenti?
Se tu presidi un tema (che però è diverso da un prodotto), è possibile creare delle comunità attorno a quel tema. La sfida è trovare dei valori e creare dei contenuti collegati, poi le persone tenderanno a coagularsi attorno a quei valori. Credo però che sia sempre più difficile per un marchio creare un legame come avveniva in passato, perché la frequentazione e la fidelizzazione sono cambiate. Nessuno utilizza più lo stesso conto corrente o lo stesso detersivo per tutta la vita e lo stesso vale per le comunità, che credo vadano ripensate come luoghi in cui entrare, uscire e magari rientrare dopo anni.
La comunità come soggetto è qualcosa di interessante, proprio perché le persone non fanno più parte solo di una comunità…
Da questo punto di vista c’è ancora tanta strada da fare: vanno trovati dei temi e con- tenuti trasversali, comprensibili a tutti, interculturali. E non siamo abituati a tutto ciò. Una delle differenze principali tra videogame e cinema è proprio questa: i primi vengono prodotti per una scala mondiale, mentre la maggior parte dei film – parlo soprattutto di quelli italiani degli ultimi 30 anni – nascono e muoiono per una distribuzione nazionale.
È una prospettiva interessante anche per le organizzazioni che stanno diventando reti distribuite. Serve quindi un linguaggio come quello del gaming: inclusivo e in grado di funzionare per tutti…
I videogiochi nascono per un’audience globale, per creare comunità globali che poi si clusterizzano in maniera non rigida. Dietro questa impostazione ci sono ovviamente anche ragioni di scala economica, però un buon videogioco offre a diverse tipologie di pubblico buoni motivi per restare. Per le organizzazioni, fornire motivi e valori a pubblici diversi, ma validi per tutti, implica una nuova modalità di progettazione.