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Il DIY dai Nirvana alle Business Community. Cosa significa essere Indie?

sintesi

Da quando ascolto musica – quindi da sempre – mi piace ascoltare (e suonare) musica indie, termine con cui gli americani accorciano il loro “independent”. La musica indie - nel suo senso attuale - nasce in America alla fine degli anni ’70, con il punk rock, le autoproduzioni e il DIY (do it yourself ); si consolida negli ’80, con la nascita e lo sviluppo di una rete di piccole etichette discografiche e si impone nei ’90 quando i gruppi indie arrivano al successo. Emblematico è il caso dei Nirvana, che incidono il primo disco per una piccola label di Seattle nel 1989, firmano per la major Geffen e con il secondo disco, Nevermind del ‘91, vendono 25 milioni di copie. Con i Nirvana la cultura indie esplode e la parola diventa il termine “ombrello” che conosciamo, fino all’ambito d’impresa. Ma cosa significa essere indie? In generale, significa porsi al di fuori delle logiche della produzione e della distribuzione di massa. Nello specifico, significa avere il controllo della propria opera (dovendo “rispondere” direttamente al proprio pubblico/Cliente – e, di fatto, investitore – senza troppi passaggi intermedi), declinare il profitto economico anche in un’ottica di soddisfazione personale, scegliere i collaboratori in base a criteri etici, entrare in una rete di persone che “la pensano come te” e ti aiutano a diffondere il tuo prodotto. Ma che c’entra questo con il mondo delle imprese medio-grandi, teoricamente al di fuori dell’ecosistema startup che invece nasce già “indie” di suo? C’entra in almeno due modi. Il primo strutturale: l’arrivo di internet prima e dei social network poi ha dato un impulso fortissimo alle logiche “indipendenti” tanto che, come ci insegna la teoria della lunga coda di Chris Anderson, nell’era del web è spesso più vantaggioso essere di nicchia (o lavorare con una somma di nicchie) che “generalizzarsi” nel mainstream. Abbiamo “vinto noi” (parlo della generazione cresciuta, per tornare all’esempio iniziale, a pane e Nirvana)? In un certo senso, ma è anche vero che è sempre più difficile distinguere tra ciò che è indie e ciò che non lo è, in questa fase di trasformazioni e turbolenze economiche in cui la grande distribuzione perde terreno rispetto ad autoproduzioni, fundraising, localismi, aziende rizomatiche sempre più influenti. L’indipendenza, la capacità di trovare dentro di sé le risorse per generare valore, diventa la via più sperimentale e al tempo stesso più “sicura”, perché centrata sul proprio “saper fare”. Me lo insegna il mio lavoro di community manager: mettere i propri utenti nelle condizioni di far da sé (“DIY”, appunto), con strumenti progettati per abilitarne l’autonomia professionale, semplifica e aggiunge valore alla Community stessa. Il secondo punto è personale: essere attitudinalmente in-dipendenti nel proprio lavoro è un pregio del quale tanto HR management dovrebbe far tesoro. Significa, tra le altre cose: pensare con la propria testa, assecondare i gusti del Cliente ma non dimenticare i propri, conoscere non solo quello che va forte e che tutti chiedono oggi, ma anche quello che sta per “esplodere” e che chiederanno fra sei mesi o un anno. scegliere i fornitori secondo principi o valori di affinità “etica” (green, per esempio) piuttosto che per sole questioni di bilancio; impostare logiche orizzontali di scambio con i colleghi, collaborare e divertirsi insieme a loro. Supporto e stima reciproci in un gruppo di lavoro sono importanti almeno quanto gerarchie e divisione dei ruoli. favorire l’open source e la circolazione delle idee: cercare per quanto è possibile di fare sistema, di costruire una rete con i nostri Clienti e Partner. Non c’è valore migliore di quello condiviso. In due parole: fare business con la testa e… con il cuore!