People Tradurre parole ed esperienze
Tradurre significa interpretare e riportare un contenuto a una lingua o esperienza conosciute. Come avviene?
Ormai più di dieci anni fa apparve nelle sale il secondo lungometraggio di Sofia Ford Coppola: Lost in translation. Un film sulla incomunicabilità – si disse. Non certo un film sui traduttori, naturalmente. Eppure lo spettro di ogni traduttore – come di ogni seria relazione tra persone in azienda – è quello di perdersi qualcosa di interessante, di necessario.
C’è infatti qualcosa di esemplare nell’impresa del traduttore.
La prima è certamente l’incontro con un codice diverso, che è necessario (o interessante) decifrare.
La seconda è che ogni lavoro di traduzione è, naturalmente, un lavoro di immedesimazione e di interpretazione. Il testo da cui si traduce proviene da un’esperienza che lo ha generato (e con la quale è bene sempre tentare almeno una minima immedesimazione), il testo tradotto obbedisce ad analoghe condizioni. Deve servire a qualcosa.
Ora noi però sappiamo bene che la parola ‘traduzione’ non si applica solo ai testi (scritti, parlati etc.). Per comprendere qualcuno (o qualcosa) di diverso (e ignoto) abbiamo sempre bisogno di riportarlo a tratti familiari, appunto di ‘tradurlo’. Nella nostra lingua, nella mia lingua. Cioè nella nostra esperienza. Sappiamo però anche che la sua particolarità, la sua originalità va rispettata, cioè lasciata libera di esprimersi. Lo sa ogni bravo traduttore, lo sa ogni bravo talent scout o responsabile delle risorse umane.
Ma che cosa accade quando questa ‘traduzione’ è un’impresa collettiva?
Perché sembrano esserci contesti nei quali i vantaggi (e quindi la necessità) di una traduzione ‘comunitaria’ sono chiari. Un ottimo esempio ‘tecnologico’ è la piattaforma Motaword che offre servizi di traduzione utilizzando, appunto, un network collaborativo personale (“Machine translation? So many mistakes!”).
Ma lo dimostra forse anche meglio quel serbatoio di idee e di scambio che è il TEDx. Il gruppo di traduzione dei TED talk giapponesi ha fatto una doppia scelta interessante. La prima è stata quella di incontrarsi di persona, e non solo on-line. Evidentemente il flusso di parole che scorre tra persone che abitano lo stesso luogo ha ancora qualche vantaggio competitivo… La seconda è quella di raccogliere una varietà estrema di componenti. Alla traduzione delle presentazioni non hanno lavorato solo esperti in lingue straniere – studenti, docenti accademici – ma anche persone con skill del tutto eccentrici all’ambito in questione: uno snowboarder e un guidatore di muletti… L’idea è semplice e interessante: non si tratta di votare in assemblea ogni parola da scegliere, quanto piuttosto, in casi complessi, di implementare il lavoro, ordinariamente di un paio di persone, convocandone altre dalle competenze volutamente molto distanti. Il presupposto è chiaro: per cogliere (ed esprimere) un’esperienza complessa è necessario dislocare i punti di osservazione nelle posizioni più varie. Questo perché un significato – il senso di qualcosa – può essere meglio intercettato ed espresso se viene avvistato da una postazione remota.
Non solo: lo scambio reale, vis a vis di questi ‘avvistamenti’ genera, a sua volta, una rete di significati, di soluzioni, il cui spessore e la cui ampiezza possono riuscire nell’impresa decisiva di ricevere esperienze, farle proprie e rioffrirle. Una vera rete in cui creatività ed originalità non sono variabili ingestibili o addirittura dannose (e quindi da rimuovere), ma necessità vitali.