Companies Weconomy FAQs
Dialogo immaginario sull'economia del Noi.
sintesi
Weconomy, l’economia del Noi: suona bene. Ma cos’è? Buona domanda. La definizione “da manuale” che abbiamo dato nel nostro libro è la seguente: “l’impresa del futuro è un’impresa che democratizza i processi gestionali, si basa sulla co-progettazione, coinvolge Clienti, dipendenti, fornitori, concorrenti”. Questa, per noi, è la Weconomy. Buona risposta. Ma se volessi una definizione un po’ meno “da manuale”? Per cominciare, ti consigliamo di andare su youtube.com/weconomybook e dare un’occhiata alla clip “We Are Changing”, un montaggio di video presi dalla Rete che abbiamo realizzato in occasione dell’evento Weconomy Day del 24 maggio 2011. (...) Vista? Vista. Bella, ma c’è dentro un po’ di tutto: cos’è, di preciso, questo WE? WE è la prima persona plurale: è quando il ME – la prima persona singolare, il singolo individuo – dialoga, condivide, collabora, in una parola si apre ad altri ME. WE, dunque, è lo sciame di movimenti con e senza palla del Barcellona di Guardiola. WE è condividere il proprio spazio di lavoro con altri professionisti (co-working), come fanno quelli di The Hub. WE è l’assunzione di buona fede (“good faith collaboration”) che fa sì che ogni utente che aggiunga una riga a una voce di Wikipedia lo faccia con la certezza che altri utenti, a loro volta, contribuiranno a migliorarla. E potremmo andare avanti ancora a lungo. Bene, ho capito cos’è il WE. Ma cosa c’entra con l’economia? In realtà, la domanda contiene la risposta: l’economia è, etimologicamente, la regola dell’oikos (“eco”, come in “ecologia”) ovvero della casa, della famiglia, dell’ambiente. Il valore di cui tratta l’economia non è, quindi, il solo valore economico nell’accezione “monetaria” del termine: è anche valore (profitto, progresso) individuale, sociale, ambientale. Cioè: di ciò che è plurale, di ciò che è condiviso, di ciò che è WE. Quindi l’economia è sempre stata, almeno in parte, una “Weconomy”? Sì e no. Sì perché, da sempre, in impresa si lavora e si cresce insieme: si comunica, si partecipa, si collabora. È naturale. No perché, nel tempo, una certa impresa – bloccata nel paradigma verticistico-piramidale che i libri di business definiscono “taylorista-fordista” – ha ingessato questa naturale propensione dell’essere umano alla collaborazione in un eccesso di controlli, procedure, gerarchie, disparità. Si è cioè trasformata da eco-nomia a ego-nomia, l’economia dell’Io: “quella basata su una visione e una gestione egocentrica, chiusa su se stessa, incapace di aprire le porte all’immaginazione, alla creatività, all’innovazione collettiva”. E cosa sta cambiando, oggi, per cui è sempre più attuale parlare di "Weconomy"? Quattro lettere: "Rete". È la Rete che cambia tutto. Il Web, che ce ne accorgiamo o meno, muta il nostro modo di pensare, il nostro cervello. Viviamo un vero e proprio “salto antropologico”: in questa era l’era - dell’iperconnessione - stiamo evolvendo verso nuovi concetti di identità, di senso, di realtà. E la tecnologia è l’acceleratore esponenziale di questo cambiamento. La teoria mi è chiara. Ora posso avere qualche esempio pratico di imprese davvero WE? Questa è una Question davvero Frequently Asked. Nel nostro libro e nei nostri eventi abbiamo portato come esempi di best practice della Weconomy sia casi di grandi imprese multinazionali come Google, sia casi di medie imprese italiane come Loccioni. Ma la realtà è molto più complessa e sfumata: non può esistere una certificazione, un “bollino” di chi è WE e chi no (posto che c’è chi sta cercando di tenerne il conto: l’ottimo progetto meshing.it ha catalogato oltre 5.000 piccole imprese di tutto il mondo 100% collaborative). Perché la Weconomy è un movimento che – in varia misura o intorno a singoli “fuochi di sperimentazione” – può animare qualunque impresa: dalla one-man startup 2.0 al colosso industriale da 100.000 dipendenti. Grazie. Un’ultima domanda: quindi Weconomy è la Soluzione con la S maiuscola a qualunque problema di qualunque impresa in qualunque contesto? NO: LA WECONOMY FUNZIONA MA (DA SOLA) NON BASTA. Partiamo da un esempio concreto: su “Weconomy” (novembre 2010) abbiamo dedicato due pagine al caso virtuoso del leader americano nell’elettronica di consumo, Best Buy, definendolo “un retailer “normale” (certo non di frontiera), ma speciale nell’adattarsi alle tendenze ed esigenze della civiltà digitale”, in virtù di alcuni suoi “progetti WE” come il servizio di assistenza via Twitter di TwelpForce o la piattaforma di condivisione di nuove idee Best Buy IdeaX. Fast forward, 12 mesi dopo (novembre 2011): Best Buy annuncia la chiusura dei suoi (pochi, a onor del vero) punti vendita nel Regno Unito e la conseguente rinuncia ai suoi piani di espansione sul mercato europeo. Non solo: anche negli Stati Uniti, sulla base di dati pesantissimi come il -29% nel Q3 2011, si comincia a parlare di “singhiozzi”, “crisi di mezz’età”, “crisi d’identità”, se non, addirittura, del “perché Best Buy stia gradualmente fallendo” (cit. Forbes). Perché? Per quanto la situazione di Best Buy sia fluida e – anche grazie alla trasparenza del Weconomy-style del suo management (vedi il blog del CEO Brian Dunn)* – ancora imprevedibile (in positivo), è evidente come la complessità e la velocità del contesto contemporaneo, specie in settori delicati come il retail, ponga sempre nuove sfide all’impresa, anche alla più aperta e partecipativa.