Invadere e farsi invadere

Design Invadere e farsi invadere

La progettazione di nuove esperienze collaborative per trasformare un servizio tradizionale in un'esperienza memorabile.

sintesi

Collaboration. Makers. Startup. Parole nobili. Parole magiche del momento. Parole insidiose, quindi. Tutti ne parlano. Per certi versi, è quasi una maledizione (ovvero, un “dir male” le cose), una moda, un abuso.

Nelle nostre aziende, specie le più consolidate, credo sia importante ragionare e sviluppare piuttosto quella mentalità, affine a tutti questi concetti, che con un termine italiano abbastanza contorto si definisce “imprenditività”.

Chi, come me, ricopre in azienda il ruolo del “direttore di stabilimento” che ogni giorno si occupa di progettare, confezionare e consegnare conoscenza a migliaia di persone, svolge in realtà anche un mestiere “sommerso” che, in parole povere, consiste nel farsi gli affari degli altri invitando gli altri a farsi i nostri.

Concetti come “alleanza” o “contaminazione” funzionano cioè se abbiamo in prima persona la capacità di farci “invadere”, e di invadere a nostra volta i terreni altrui.

Non vedo alternative: in questo mondo interconnesso e a complessità crescente, una visione lineare e per via gerarchica nella soluzione dei problemi non funziona più. Occorre metterci curiosità, impegno a guardare oltre, capacità di essere intelligenti nel rispettare le regole e, al tempo stesso, abbastanza “impertinenti” da progettare spazi di contaminazione con persone dalle prospettive differenti. Persone che in azienda svolgono mestieri diversi dai nostri. Clienti insieme ai quali coprogettare nuove soluzioni (oggi più che mai un imperativo categorico). Più in generale, una collettività fatta di istituzioni, di scuole, di giovani startupper che pongono precise domande all’ordine del giorno. Domande di occupabilità (non più di sola occupazione), anzitutto. Il punto, insomma, è come un’impresa come quella in cui lavoro possa porsi, in quanto macchina di apprendimento e in quanto agente sociale, nelle condizioni di rispondere a questa esigenza e produrre così una diversa, nuova occupabilità.

Ecco dove (e perché) c’è un grande spazio per il design collaborativo di nuove esperienze. E non si tratta solo di una competenza da esperti di design: servono le persone dell’ultimo miglio che, specie nelle aziende che non vendono beni materiali, possono fare la differenza e trasformare un servizio tradizionale in un’esperienza memorabile.

Non solo “scuole di startup”, per esempio: ma vero e proprio design di imprenditività quale stato della mente, condivisione di quel capitale di conoscenza che aiuti le persone a ri-orientarsi verso l’idea di inventare il proprio lavoro, e non solo di trovarlo. È un metodo, questo, un saper fare (anche con le mani) che non riguarda le sole startup di ambito ICT (l’eterno sogno di una Silicon Valley made in Italy…) ma consiste anche nel recupero e nella nobilitazione della nostra artigianalità, di quello straordinario potenziale che è il nostro “making”.

Invadere e farsi invadere è quindi una competenza che vale la pena di insegnare; la condizione prima per creare le nuove alleanze e i nuovi modelli di business di cui il nostro Paese, oggi, ha realmente bisogno. Se riuscissimo a catalizzare le energie dei giovani, a strutturarle, a potenziarle, a trasformare attraverso il design thinking le loro idee in progetti solidi e “raccontabili”, potremmo presentare alle imprese nuove opportunità, con rischi e impatti minori, tali da farci guardare al futuro con maggiore solidità e fiducia.