Aprirsi ed esplorare: un vaccino organizzativo

UFO. Unidentified Future Organizations Aprirsi ed esplorare: un vaccino organizzativo

Il futuro della collaborazione nelle organizzazioni distribuite, tra nuovi mindset e forme per liberare energia e innovazione.

Il virus è un ulteriore elemento che si inserisce nel reframing che stiamo vivendo. Ha reso evidente come elementi fuori dal controllo umano possano cambiare in modo profondo la nostra vita. Ci costringe a dare una risposta non più scontata a una domanda: qual è il ruolo dell’uomo nelle organizzazioni economiche? Per capire le organizzazioni UFO, quindi, dobbiamo prima di tutto definire noi stessi, anche attraverso ciò che non siamo e non vogliamo essere.

Prima di tutto, penso che le abilità tecniche verticali stiano perdendo la centralità che hanno per molto tempo avuto. Demandando molte di questi aspetti alle macchine e agli algoritmi, l’uomo si distingue sempre più per la capacità di riadattarsi a situazioni mutevoli, rileggere il contesto, interpretare e scoprire. Invece in molti casi è meno centrale la capacità tradizionale di applicare pattern accumulati nel tempo. Sono ambiti sintattici a misura di robot e intelligenza artificiale.

L’innovazione come esplorazione

L’innovazione non è fatta solo di know-how ma anche di know-who: sapersi connettere e fare relazione, unire i puntini, collegare esperienze e hackerare ciò che non funziona più. E poi andare a cercare ciò che sta fuori dallo scope delle nostre competenze. È ciò che sostiene David Epstein nel suo Generalisti. Si tratta di attitudini divergenti ed esplorative che non molte organizzazioni sono in grado di gestire.

Per fare un esempio, il mondo del design ha maturato nel tempo molti tool per risolvere problemi e affrontare processi di innovazione. Si nota però che spesso la tendenza è a riempire schemi in maniera quasi automatica. Spesso diventano uno strumento quasi “difensivo” che permette di portare a termine un lavoro anche quando non si hanno le conoscenze necessarie per esplorare il contesto reale. E così lavorare sui canvas sta diventando qualcosa di compilativo, che consiste nel completare le caselle per consegnare un output. Questi strumenti sono utili come mezzo per ridurre la complessità e non per banalizzare la realtà. E quindi devono essere utilizzati come qualcosa che aiuti a scegliere, a sintetizzare, a prendere nota delle cose più significative e a tralasciare le inessenziali.

Un nuovo mindset come vaccino organizzativo

Nella fase di smart working emergenziale ci siamo curati di procedure e performance, ma non abbiamo riprogettato i nostri rituali e i nostri framework. E se la cultura organizzativa perde i suoi spazi di sviluppo, è difficile muoversi verso le sfide future. Un‘organizzazione tutta focalizzata sull’esecuzione funzionerà solo all’interno di processi gerarchici a cascata. Si adatteranno al nuovo contesto i layer esecutivi, per raggiungere risultati e andare avanti, ma penso ci sia bisogno di un secondo layer che permette di guardare dall’esterno noi stessi e gli altri e comprendere come agire per lavorare meglio di oggi. Questo livello riguarda la ricostruzione di un tessuto in grado di trasformarsi ed evolvere, che punta sull’intelligenza delle persone, sulla collaborazione e la trasparenza. È qualcosa che va preparato ed è un lavoro che molte organizzazioni lean e agile hanno sviluppato negli anni. Non è un caso che questo tipo di imprese siano riuscite a lavorare in modalità ibrida già prima della pandemia: avevano un loro “vaccino organizzativo” che viene rinnovato dall’empatia, dall’interazione tra le persone e guarda al valore che ognuno è in grado di generare. Chi non ha sviluppato questo mindset nel tempo non ha meccanismi reattivi e ora deve ricrearli.

Più che di nuove competenze ed expertise, oggi c’è bisogno di libertà di pensiero ed energie esterne

Ma c’è bisogno di tempo. Penso che i cambiamenti organizzativi siano come certi tipi di reazione chimica che, se troppo rapidi, possono portare a un’esplosione. La necessità del cambiamento riguarda tutti, anche le organizzazioni di medie e piccole dimensioni, che si stanno rendendo conto sia di ciò che frena i propri processi interni sia di quanto ci sia bisogno di open innovation: cioè di spazi di connessione con l’esterno. Oggi non si può esplorare e pensare in maniera diversa affidandosi solo alle risorse interne. C’è bisogno di qualcosa che proviene da fuori e che rimanga all’esterno, perché non deve ragionare per la conservazione del mercato attuale. In questo caso più che nuove competenze ed expertise sono più utili la libertà da pregressi vincoli commerciali e la curiosità (ciò che spesso caratterizza le migliori startup).
Entrare in contatto con mindset diversi è fondamentale. Vedo un cambio di paradigma nell’innovazione: non più a sostegno del proprio business model, ma al servizio di un approccio che integra explore ed exploit. Altrimenti non accederemo a letture alternative del contesto. Ed è limitante in un momento in cui i mercati si stanno ridefinendo.

Il futuro della collaborazione

Oltre a un organigramma ufficiale, le organizzazioni hanno una controparte parallela e nascosta, nella quale scorre la vita delle aziende. È una componente che deve emergere, ma viene bloccata se si affrontano i progetti con un approccio deterministico, in cui ci si limita a impostare gli obiettivi, per poi misurarli fino al raggiungimento del risultato. Invece, per gestire situazioni complesse e incerte c’è bisogno di aumentare la frequenza dei feedback ma, soprattutto, fidarsi, aumentare la trasparenza, concedersi una certa “perdita di controllo”. Nelle aziende che vogliono trainare processi di innovazione, diventa utile perfino un collaboratore che, all’ultimo momento, cambia idea e riparte daccapo. Introduce un elemento di inefficienza ma, se ha successo, attraverso l’originalità, avrà creato un vantaggio competitivo. Al contrario, limitarsi a fare i compiti, imparare a memoria le procedure, applicarle con precisione è qualcosa che può essere probabilmente automatizzato, se non ora, molto presto.

La dimensione dello stare insieme è una nuova forma di problem solving

Finora siamo stati immersi in una retorica della velocità, a tutti i livelli. Nel mondo si è alzato il turnover nelle aziende perché le persone cambiavano lavori in fretta per far crescere rapidamente le proprie competenze (e i propri stipendi). Ci siamo abituati a non fermarci, a ricevere stimoli veloci e dare feedback veloci. Però quando si parla di collaborazione siamo vincolati al cervello umano, non ai bit. E la relazione con gli altri funziona attraverso le esperienze e il riconoscimento reciproco. Il sociologo Richard Sennett sostiene che i modelli collaborativi siano scambi differenziali per capire l’altro, per passare da un gioco a somma zero a qualcosa di win-win. I rituali collaborativi di cui parla Sennett offrono uno spazio di manovra, in cui si crea quella lentezza di apprendimento che è opposta alla pur virtuosa rapidità dei feedback del mercato.

Essere in presenza per osservare insieme

Provando a immaginare il futuro delle organizzazioni ibride, penso che la dimensione dello stare insieme nello stesso ambiente verrà utilizzata sempre di più per risolvere problemi, attraverso momenti di confronto ben progettati. Perché insieme si ha maggiore capacità di analisi e più punti di vista a disposizione. È qualcosa da non confondere con la creatività, che ritengo una caratteristica individuale, molto diversa dalle capacità esplorative, che sono collettive. E forse, allora, abbiamo interpretato le piattaforme per la comunicazione, come Zoom, in maniera sbagliata. Non sono state una soluzione per la trasformazione digitale, piuttosto la risposta a una questione sociale, per continuare a interagire. Ora resta ancora da chiedersi, quali problemi stanno nascendo con la mancanza di confronti? Quali opportunità nasceranno quando si aumentano gli spazi non dedicati alla pura esecuzione?