UFO. Unidentified Future Organizations Nuovi leader, per far convivere libertà e gerarchie
Qual è il ruolo della “leadership gentile” per alimentare le relazioni e far prosperare le nuove modalità di lavoro all’interno del Gruppo Enel, una realtà multinazionale con 70 mila collaboratori.
Le trasformazioni in corso nelle organizzazioni richiedono un nuovo tipo di leadership, che tu chiami “leadership gentile”. In cosa consiste?
Partiamo con una premessa. Negli anni le organizzazioni di natura industriale hanno puntato tutto sull’execution, portandole a una deriva verso il risultato. Facendo ciò hanno dimenticato “il sentire”. È stato questo momento di difficoltà sanitaria a farci riscoprire l’importanza di questa componente, su cui si fonda la dimensione del Noi, fatta di integrazione e pluralità.
Le tecnicalità non bastano. “Il fare” porta a un vero risultato solo quando fa parte di un processo partecipativo. E, se vogliamo che il gioco di squadra funzioni, dobbiamo chiedere alle persone di esprimere le proprie passioni e il proprio talento, in maniera libera. Dobbiamo avere pazienza, mettere da parte le debolezze individuali per far sì che i punti di forza emergano. I risultati arriveranno dopo e, con questa dinamica, ne saranno potenziati. Questa per me si chiama “leadership gentile” e permette di curare la relazione, di dare spazio agli individui prima di pretendere risposte immediate.
Ma che fare quando una passione non ha a che fare con il proprio lavoro? E quando la libertà di esprimersi genera entropia?
Le persone non sono spicchi d’arancia, sono un’arancia intera. Non si può isolare ciò che è utile e buttare il resto. Perciò ritengo che la segmentazione tra passioni lavorative e passioni private sia una grande truffa. È sulle passioni che si consolida un’inclusione di tipo emotivo, che costituisce la base per quei legami informali e umani che potenziano i team. Ciò comprende anche le vulnerabilità, le debolezze e gli aspetti meno facilmente gestibili. Credo che quanto più una persona è complessa, tanto più possa fortificare gli equilibri del gruppo. Se siamo in grado di coinvolgere anche i sabotatori e gli antagonisti, saranno i primi a offrire suggerimenti ai quali non avremmo mai pensato. Secondo me, quando si parla di diversity & inclusion, non si possono trascurare questi aspetti.
Nella tua visione le persone, quindi, acquisiscono maggiore libertà. Significa che le gerarchie sono destinate a scomparire?
No, affatto. Penso che la leadership gentile permetta di ricomporre il paradosso tra libertà e gerarchie. Per esempio, nei brainstorming è fondamentale che ci sia libertà, perché le idee non hanno gerarchia. Quest’ultima, però, è un elemento determinante nell’execution: non per consolidare un rapporto di potere, ma per assumersi delle responsabilità, metterci la faccia e difendere le inesperienze degli altri.
In questo contesto il leader gentile non è un regista, dà libertà ai team che coordina, vigila sulla coesione del gruppo e interviene solo se gli equilibri si sfaldano o se è necessario rimediare agli errori. Perché quando un team funziona, il ritmo della collaborazione è distribuito. E il leader deve sapersi spogliare del proprio ruolo per lasciar emergere le potenzialità delle persone.
Il leader gentile non è un regista: deve spogliarsi del suo ruolo per dare libertà alle persone
E allora è sempre più importante alimentare le relazioni e mantenere il contatto con tutti i collaboratori. Come può riuscirci una realtà multinazionale come la vostra che, inoltre, sta diventando sempre più ibrida?
Per farcela abbiamo dovuto rompere un circolo vizioso. Nel vecchio modello i responsabili del personale avevano occhi solo per i capi e per i talenti. Il resto dell’organizzazione era invisibile. Oggi abbiamo introdotto un nuovo parametro: ogni 120 colleghi c’è una persona che si occupa della loro gestione. Questa proporzione garantisce una conoscenza diretta e la possibilità di coltivare una relazione. Pensiamolo come al numero ideale di invitati a un matrimonio, un tetto che non vogliamo superare per evitare di festeggiare con degli sconosciuti. Così le risorse umane possono realizzare colloqui regolari e comprendere cosa vogliono i singoli, cosa desiderano, quali sono le loro passioni. Il tutto viene archiviato su un CRM che conserva la storia di ognuno perché, anche in questo caso, il personale di gestione non viene imposto dall’alto: tutti hanno ha la possibilità di scegliere il proprio e – ogni anno – possono cambiarlo.
Finora abbiamo guardato alle componenti umane. Ma come stanno cambiando i vostri uffici e le modalità di lavoro?
Prima della pandemia puntavamo tutto sulla presenza fisica nell’headquarter. Oggi parliamo di hub-quarter ed è un cambio di paradigma: la dimensione dell’ufficio è riservata alle attività a valore aggiunto, alle quali si partecipa in maniera volontaria. Si lavora per risultati: negli hub-quarter le persone sanno sempre cosa fare, vi accedono per una sessione di formazione strategico-esperienziale, per un brainstorming o per accogliere un nuovo collega… I reparti segmentati non esistono più, ci si può sedere accanto a un ingegnere, a un legale o a un marketer.
Questo modello non è stato calato dall’alto, è emerso grazie una survey che abbiamo realizzato coinvolgendo 4 mila “nuclei elementari”: gruppi selezionati per avere un campione rappresentativo della nostra organizzazione, che conta circa 70 mila persone. Il nostro obiettivo non era coinvolgere i capi, ma comprendere cosa volessero i singoli. Nel nostro caso, dal Perù alla Russia, è emerso che le persone preferiscono recarsi in ufficio non più di una settimana al mese e farlo liberamente.
Oggi la dimensione dell’ufficio è legata alle attività a valore aggiunto. E si partecipa in maniera volontaria
Ma il Gruppo Enel ha anche moltissime persone che lavorano sul campo. In che modo tutto ciò riguarda anche loro?
Anche se non hanno tutti i benefici dello smart working, i lavoratori sul campo non sono affatto ai margini del cambiamento. I vecchi colletti blu stanno diventando colletti azzurri. Oggi hanno tablet e dispositivi con cui intervenire sugli impianti, gestire gli ordini e interfacciarsi con i clienti. Stanno acquisendo libertà e capacità di auto-organizzazione. Per esempio, dialogano in maniera ibrida con il personale amministrativo, senza più dover andare in ufficio per verificare un ordine. Inoltre, stiamo introducendo dinamiche premiali: una volta raggiunti i risultati, le persone sul campo possono avere ferie aggiuntive, proprio per dare anche a loro quel prezioso tempo libero che ottengono le persone in smart working.
Enel è una realtà con più di sessant’anni di vita. Come può rinnovarsi e attrarre nuove generazioni e nuovi talenti?
Credo che l’acquisizione dei talenti e il ricambio generazionale vengano bloccati da una dinamica precisa: i capi tendono ad assumere gente uguale a loro, ma meno brava. Così abbiamo organizzato recruiting day che partono da presupposti completamente diversi. E cioè favorire l’incontro tra persone. Nelle aule che stiamo organizzando si riuniscono ingegneri, filosofi, geologi… Si inizia parlando delle proprie passioni. Poi ci si divide in gruppi per esercitarsi su una business idea originale che, infine, viene presentata a tutti.
Finita la sessione, i partecipanti daranno voti che riguardano, per esempio: la miglior presentazione individuale (che fa emergere le qualità di leadership dei candidati); la persona con cui c’è stata la migliore collaborazione (e ciò riguarda la qualità del teamwork); il pitch più efficace (per individuare le abilità di storytelling). Queste valutazioni “dal basso” ci permettono di avere una classifica dei migliori candidati, dando priorità agli elementi attitudinali provenienti da persone che – potenzialmente – lavoreranno insieme. La suddivisione per cluster e la verifica delle competenze tecniche avviene solo in un secondo momento. Questo è il nostro modo di far entrare in azienda i giovani e i ribelli.
Molti sostengono che un’organizzazione distribuita debba guardare ai territori e alle comunità, non solo a dipendenti e clienti. È così anche per il Gruppo Enel?
Ci troviamo in un’epoca imprevedibile e affidarsi ai mega-trend o solo alle nostre capacità di programmare il futuro porta fuori strada. Non sappiamo cosa succederà tra cinque anni, né quali saperi e competenze emergeranno. Ecco perché, per noi, è importante essere presenti nelle città, nelle università, negli incubatori e creare hackathon. E non solo nei grandi centri: alimentare legami con i confini dell’impero è determinante per capire davvero cosa succede e cosa succederà. E tutto ciò non riguarda solo i temi legati alla sostenibilità sociale. È un grande valore per il business.