Future I dilemmi e la loro gestione
L’aumento della complessità sta portando alla nascita di problemi con sempre più variabili e sempre più outcome.
L’enciclopedia online Wikipedia definisce dilemma (dal greco: δίλημμα “doppia posizione”) come “un problema che offre due possibilità, nessuna delle quali è evidentemente e certamente preferibile o accettabile”. Di un dilemma molto famoso, quello “del prigioniero”, ne avevamo già parlato qui, immaginando un’ipotesi collaborativa rispetto alla sua situazione.
Nel libro The Change Book, Fifty models to explain how things happen, viene presentato un interessante modello di esplorazione di dilemmi apparentemente irrisolvibili; nel libro questo modello viene chiamato Climate Disaster Model. Il nome deriva dall’esempio scelto per descriverlo: nel 2007 Greg Craven pubblicò un video sul cambiamento climatico che, in qualche modo, adattava il dilemma del prigioniero al riscaldamento globale.
Il problema può essere efficacemente sintetizzato in una matrice 2×2 dove nelle righe si posizionano le due possibilità del cui avvenimento non si è con sicurezza a conoscenza (i.e. il climate change sta effettivamente avvenendo per causa dell’uomo oppure no) e nelle colonne si posizionano le azioni sulle quali noi abbiamo potere decisionale (i.e. cambiare atteggiamento nei confronti dei consumi oppure non farlo).
Incrociando le ipotesi si sviluppano 4 diversi scenari che mostrano gli effetti della decisione di agire o meno in base al risultato dell’evento. La cosa importante da tenere a mente a questo punto è che noi abbiamo possibilità di scelta solo sulle colonne mentre ignoriamo quali delle due righe si verificheranno. Dobbiamo quindi valutare quale tra le due colonne comporta il rischio maggiore; in questo caso la colonna che suggerisce di non agire contiene lo scenario più catastrofico (non agire e il cambiamento globale è una realtà) che porterebbe, a detta della quasi totalità di ricercatori, a problemi estremamente gravi di ordine politico, economico, sociale, ambientale e della salute.
Questo modello può ovviamente essere applicato a molte situazioni la cui risposta non è evidente e basata su due alternative. Il problema è che, come abbiamo più volte detto, l’aumento della complessità aggiunge sempre più fattori di cambiamento e livelli di possibilità, che moltiplicano gli scenari e rendono difficile la messa a sistema e la semplificazione del quesito.
Se un tempo, negli anni ’80 e ‘90, gli insegnanti spiegavano ancora il funzionamento dei computer ai propri studenti in termini di codici binario (tempi difficili, ricordo con piacere) la complessità dei tempi contemporanei fa sì che si dia per scontato che certe cose che ci circondano non le si potrà comprendere appieno. Nel libro The Decision Book, Fifty models for strategic thinking, parente del libro sopraccitato, questo fenomeno viene descritto col nome di Black Box Model. Quotidianamente utilizziamo oggetti che non capiamo, osserviamo dinamiche e processi complessi, delle sorte di scatole nere che funzionano ma che ci sono incomprensibili anche se ci vengono spiegate.
L’effetto? Dover fare affidamento su degli esperti, su coloro che hanno studiato e fatto ricerca sul sistema e lo possono comprendere, e possono informarci su come gestirlo, senza necessariamente doverlo conoscere o intendere. Quest’approccio porta necessariamente allo sviluppo di reti di collaborazione basate sullo scambio di informazioni e conoscenze specifiche. Le imprese costruiscono networks di professionisti che, nella knowledge economy, costituiscono il vero valore dell’impresa stessa. Non solo, se si considera quello che secondo Cesar Hidalgo, nel suo libro Why Information Grows, è l’economia – e cioè “[…] the collective system by which humans make information grow” – possiamo capire come, in realtà, il valore dei beni scambiati risieda nell’arrangiamento del flusso di informazioni e conoscenze che ha portato allo sviluppo di quel determinato prodotto o servizio.
Non tutti sono, però, sempre d’accordo sull’importanza degli esperti. Michael J. Mauboussin, in un‘intervista sull’Harvard Business Review, parla di come la gestione della complessità affidata agli esperti non sia necessariamente la migliore soluzione, almeno quando si parla di eventi di difficile predizione. L’epistemologo Nassim Nicholas Taleb, con la sua teoria del Black Swan, suggerisce che l’impatto di alcuni avvenimenti rari e imprevedibili viene semplicisticamente spiegato a posteriori e che, tenendo conto dell’alta imprevedibilità di questi episodi, specialmente se negativi, ci si dovrebbe concentrare sullo sfruttamento delle parti positive dell’evento e sull’arginamento di quelle negative, piuttosto che sulla prevedibilità dell’evento stesso.
O forse la soluzione è più semplice. Secondo Robert Heinlein bisognerebbe “ascoltare sempre gli esperti. Loro ci diranno quello che non può essere fatto e perché. E poi facciamo il contrario”. Certo è che la complessità, a volte, fa rimpiangere i buoni vecchi dilemmi, come ad esempio quello sul climate change, la cui risposta è ormai abbastanza ovvia e urgente.