Design Quando il design ci parla di futuro e cultura
Dopo aver parlato di design come strumento di management, parliamo ora di design come processo che veicola contenuti culturali attraverso i suoi output, come disciplina che, quando svincolata dalle logiche di mercato, facilita l’esplorazione sociale dei diversi futuri possibili.
Di questi tempi si ha la sensazione che ildesign sia un po’ il “prezzemolo” culturale di questo capitalismo disorganizzato, lo si può trovare un po’ ovunque.
In questo articolo abbiamo visto, per esempio, come il lato più ‘corporate’ del design regoli i processi di cambiamento all’interno delle imprese, come questa disciplina non attenga solo a prodotti fisici, digitali o di servizio, ma abbia anche un valore comunitario aziendale che facilita una transizione attitudinale e che costruisce nuovi modelli comportamentali.
Ma il design nasce in un altro contesto. Se si pensa, ad esempio, alle origini del design italiano vengono immediatamente in mente gli anni dell’immediato dopoguerra in cui, come osserva François Burkhardt, “gli intellettuali persero la battaglia con le elezioni del 1948, e con esse la possibilità di un cambiamento delle leggi fondiarie e di una riorganizzazione della collettività, [perciò] gli architetti spostarono la loro attenzione sull’oggetto stesso, che divenne quindi portatore di significato e orientamento”.
Gli oggetti diventano quindi degli elementi non solo utili per quello che fanno ma anche per ciò che comunicano, per chi li ha progettati, per il modo in cui li ha prodotti; racchiudono in essi un valore che va al di là del valore materiale e funzionale, quello che Pierre Bourdieu chiama ‘capitale culturale’, un valore che li rende simboli desiderabili per alcuni e non per altri.
Appropriandosi anche di un ruolo creato dall’arte (ed in particolare dall’arte concettuale) di creare contenuto critico e provocatorio con lo scopo di comunicare, far riflettere, esplorare, il design si occupa anche di collegare l’economico al culturale. Tra gli anni ’60 e ’70 molte sono le realtà che radicalizzano questo ruolo portando la pratica del design a sconfinare quasi con l’arte (citiamo ad esempio Walter Pichler, Archigram, Superstudio, …).
Negli anni successivi diversi fattori contribuirono (Dunne e Raby) a rendere più difficile lo sviluppo di progetti concettuali tra i quali spiccano l’ipercommercializzazione che ha investito il mondo del design che ha portato alla predilezione di processi di sviluppo market-driven e la retrocessione dei sogni a speranze quando ci si è accorti che i sogni del XX secolo erano in realtà insostenibili. La speculazione è diventata meno desiderabile da parte delle aziende. In questo senso, la crisi finanziaria del 2008 ha da una parte messo le imprese più ‘sulla difensiva’ ma ha anche avviato un periodo di incertezza in cui ci si è resi conto della necessità di alternative ai modelli correnti.
In questo contesto si inserisce il Design Speculativo di Dunne e Raby un design che, libero dalle pressioni del mercato, è libero di esplorare idee e problemi diversi. “I temi possono creare nuove possibilità per il design stesso; nuove estetiche e possibilità per la tecnologia; nuove implicazioni sociali, culturali ed etiche per la ricerca scientifica; o per questioni sociali e politiche di larga scala come la democrazia, la sostenibilità e alternative al nostro modello corrente di capitalismo. […] Per sua stessa definizione [il Design Speculativo] si occupa di nonrealtà. [I suoi prodotti] celebrano l’irrealtà e sfruttano appieno il loro esser fatti d’idee”.
L’effetto di questo tipo di approccio è quello di produrre un ampia gamma di episodi speculativi che si interrogano sul futuro sociale, culturale e ambientale dell’uomo. Prestate al mercato, queste esplorazioni nutrono le ricerche dei centri R&D (almeno di quelli più cutting edge) specialmente quando questi adottano modelli di Blue Skys Research. Paola Antonelli ha già trattato argomenti di questo genere, ad esempio nel TedTalk qui sotto (in cui mostra alcune istanze di design assolutamente non market-driven) e in alcune delle mostre da lei organizzate.
Si riscopre quindi il ruolo centrale dell’immaginazione (ne abbiamo parlato anche qui), dei sogni e della provocazione culturale all’interno dei processi d’innovazione nei quali i designer speculativi ridisegnano i contorni dei futuri possibili (quelli che risiedono all’interno del cono dei Possible Futures) perché sognare è importante, come dice Stephen Ducombe in Dream, Re-imagining Progressive Politics in an Age of Fantasy:
“Dreams are powerful. They are repositories of our desire. They animate the entertainment industry and drive consumption. They can blind people to reality and provide cover for political horror. But they also inspire us to imagine that things could be radically different than they are today, and then believe we can progress toward that imaginary world”.
Risorse: