Onlife: tempi, spazi e implicazioni sociali

Companies Onlife: tempi, spazi e implicazioni sociali

Per comprendere il presente e il futuro dello smart working dobbiamo guardare a come questa modalità di lavoro entra in relazione con la società, con le tecnologie e con i desideri delle persone.

Le organizzazioni stanno sperimentando una riconfigurazione del proprio habitat naturale, che include l’ufficio e gli orari del lavoro. Cosa comporta questa trasformazione?

Negli ultimi due anni abbiamo vissuto una ristrutturazione completa delle nostre esperienze. Dal mio punto di vista, sono avvenute tre grandi trasformazioni concatenate. 1. Abbiamo fatto il salto definitivo nell’onlife, un ambiente ibrido in cui non ci sono più barriere tra fisico e virtuale, online e offline; 2. Questo ambiente ha cambiato il nostro modo di vivere il tempo. 3. Il tempo – investito dal cambiamento più importante – ha riconfigurato gli spazi.
Questi tre passaggi, insieme, hanno profonde implicazioni culturali. Perché tutti i rituali comunitari della modernità hanno funzionato grazie a una “localizzazione interattiva”. Fino alla metà degli anni Duemila è stato lo spazio a permetterci di vivere il tempo sociale. Pensiamo alla messa: si svolge in tempi precisi perché, per ritrovarsi e interagire, le persone hanno bisogno di essere nello stesso spazio allo stesso momento. Questa sincronizzazione è arrivata alla sua acme nella seconda metà del Novecento, quando l’orologio sociale ha raggiunto la perfezione: allora ogni nostro rituale era scandito nello spazio-tempo: orario scolastico, orario ufficio, chiusura dei negozi, weekend, o vacanze estive. Sono aspetti che riguardano anche gli uffici delle aziende, nati per vivere in una fisicità analogica perché, nell’idea novecentesca di tempo sociale, il coordinamento delle risorse doveva avvenire attraverso la sincronizzazione, stando tutti nello stesso spazio. Con il digitale spesso possiamo fare a meno di tutto ciò: non è più importante che qualcosa venga fatto insieme ad altri, nello stesso momento. Oggi è possibile coordinare flussi operativi con forme di controllo che non richiedono la localizzazione in uno spazio prestabilito né la fisicità. Inoltre, non serve più verificare che la scansione temporale delle attività venga rispettata. È invece importante presidiare la suddivisione dei compiti, anche quando il loro svolgimento avviene su piani temporali diversi, in luoghi diversi. In sintesi, per dialogare e scambiare informazioni con un collega non c’è più bisogno dell’ufficio e quindi si aprono nuove possibilità per ristrutturare il tempo di lavoro.

Secondo lei cosa abbiamo imparato dallo smart working emergenziale che abbiamo vissuto? E quale può essere il futuro di questa modalità di lavoro?

Durante la pandemia c’è stata una remotizzazione del lavoro. Ciò è molto diverso dallo smart working, che implica una ridefinizione della produzione, dei ruoli, e delle relazioni tra i lavoratori. Abbiamo vissuto una forma di adattamento necessaria, perché il Covid-19 ci ha colti di sorpresa, ma oggi dobbiamo ripensare con calma alla nuova modalità di lavoro.
Uno degli elementi centrali dello smart working è lavorare sui deliverable, sui progetti e non più sui singoli compiti perché, come ho accennato, gli orari fissi di lavoro spesso non sono necessari. E pensare oltre la remotizzazione significa anche acquisire consapevolezza sulle attività che avranno sempre bisogno della presenza fisica. Secondo la mia esperienza, l’insegnamento è tra queste, perché ha bisogno di feedback immediati, non solo visivi o uditori, ma anche comportamentali. Per esempio, in presenza posso capire all’istante se uno studente è stanco ed è il caso di fermarsi, se qualcuno non segue e devo tornare su un punto poco chiaro. Considerando queste variabili, ogni istituzione e ogni azienda potrà avere uno smart working diverso, che cambia anche a seconda della propria maturità.

La decentralizzazione dà agilità ai processi, ma senza coordinamento è disastrosa

Lo smart working, infatti, si fonda su un basso livello di controllo, un enorme livello di autonomia degli individui, e quindi un ottimo coordinamento, perché più un sistema è distribuito tanto maggiore deve essere il coordinamento delle sue parti. Il punto sul quale bisogna ancora interrogarsi è: cosa succede se un progetto gestito in smart working non funziona? E quando i tempi di consegna non vengono rispettati? È un tema di accountability che, se non viene affrontato, porta a rischi di produttività enormi.

Quindi cosa può aiutare le organizzazioni ad affrontare lo smart working? Devono diventare meno gerarchiche e decentrate?

Penso si stia andando in questa direzione. Ed è una trasformazione più facile se ci sono livelli di coordinamento ben definiti che, però, non possono ricalcare i modelli tradizionali, nati per imitazione delle gerarchie militari. Qui i ritmi delle attività sono scanditi e coordinati all’unisono, con una linea di comando che si occupa di far funzionare le cose. Oggi questo approccio mostra tutti i propri limiti: non è abbastanza flessibile per adattarsi alla velocità dei cambiamenti nei quali siamo immersi. La decentralizzazione invece dà agilità ai processi. Ma l’agilità senza coordinamento è disastrosa: tutti i collaboratori rischiano di andare dove vogliono e quando vogliono, indipendentemente dai bisogni del business.
Inoltre, i modelli flat funzionano molto bene con team piccoli, dove il livello di responsabilizzazione è più facile da gestire e la comunicazione non si trasforma in un overhead insostenibile, ma diventano inefficienti quando aumenta il numero di persone nei gruppi di lavoro. Al di sopra di una certa soglia, una specializzazione dei compiti è inevitabile. Ecco perché, anche in un’organizzazione di medie dimensioni, la gerarchia è essenziale nel suo ruolo di coordinamento.
Credo che in futuro si affermeranno modelli organizzativi ibridi, dotati di una struttura gerarchica e stratificata, in grado di coordinare sotto-sistemi piatti. Immaginiamola come una rete multidimensionale, in cui piccoli gruppi si coordinano in maniera molecolare, gestiti da figure dedicate a connettere e orchestrare.

Nel frattempo però ci sono sempre più persone che decidono di uscire dal mondo del lavoro. Negli Stati Uniti si parla di great resignation. Quale lettura dà a questo fenomeno?

Rassegnare le dimissioni non significa sempre essere rassegnati, se posso usare un gioco di parole. Penso sia in corso una profonda riflessione sul significato del lavoro in rapporto alla vita personale. È un fenomeno globale. Con la pandemia sta crescendo l’esigenza di un ribilanciamento a tutti i livelli: verso la famiglia, i propri interessi, un lavoro più salubre e i bisogni della collettività.

È in corso una profonda riflessione sul significato del lavoro in rapporto alla vita

In Italia, per esempio, ci sono sempre più persone che scelgono la formula del part-time: rinunciano a una parte dello stipendio per investire in valori alternativi, più attrattivi rispetto a quelli di un lavoro deludente e noioso, che viene mantenuto solo per pagare le bollette.
Esistono poi altre forme di ribilanciamento, che riguardano le professionalità più qualificate. Allora, soprattutto negli Stati Uniti, ci si dimette per seguire percorsi di sviluppo personale, acquisire nuove skill e – magari – candidarsi a posizioni con un impatto migliorativo per la società. Per comprendere a fondo questo cambiamento dobbiamo smettere di pensare che il lavoro sia nobilitante di per sé, indipendentemente da quello che un lavoro comporta. Ciò che appaga davvero è l’impegno verso un progetto da realizzare.

Ma oltre alle opportunità, con la quarta rivoluzione industriale stanno nascendo nuovi divide. Come interpretarli e come poterli affrontare?

Se guardiamo all’Italia, oggi abbiamo due divide enormi: il primo impatta sulle persone che non hanno né gli strumenti né le competenze per vivere onlife. Il secondo coinvolge chi, pur sapendo padroneggiare gli ambienti digitali, si trova dalla parte sbagliata dell’economia. Penso ad esempio ai rider e a quei lavoratori della gig economy che non hanno difficoltà a usare le piattaforme sui propri smartphone, ma si trovano nella parte bassa della società dell’informazione.
Sono due divide correlati, ma necessitano di risposte diverse. Il primo è un problema di cittadinanza e richiede infrastrutture, formazione, investimenti pubblici. Il secondo è un problema di mercato e di regolamentazione. Riguarda temi come il salario minimo e il diritto del lavoro e cioè conquiste delle società analogiche che ora vanno tradotte per il mondo digitale. L’aspetto positivo è che abbiamo tutti gli strumenti per regolare il mercato.
Il rischio maggiore che vedo, invece, è la confusione tra i due piani, che porterebbe a utilizzare gli strumenti sbagliati per le questioni sbagliate. Per esempio, credo che le forme di boicottaggio dei servizi di delivery non siano una risposta, perché non agiscono per colmare queste divisioni.

Insomma il mondo del lavoro è cambiato ma non a causa dell’intelligenza artificiale, che avrebbe dovuto sostituire gli esseri umani, ma ha mancato questa promessa. Eppure l’AI è sempre più pervasiva…

Nell’ultimo decennio la narrazione sull’intelligenza artificiale è stata preda di una bolla massmediatica che, da un lato, ha disegnato scenari apocalittici, dall’altro ha venduto una visione salvifica. Trovo entrambi questi racconti stancanti, superficiali e perfino dannosi. Ci hanno fatto perdere tempo e non ci hanno aiutati ad affrontare questa tecnologia nella giusta prospettiva.
Per fortuna sono narrazioni che stanno perdendo di credibilità e, a riguardo, provo una soddisfatta frustrazione. Perché sapevamo già che le macchine non avrebbero rubato posti di lavoro: fenomeni come l’automazione e la robotizzazione, infatti, sono in corso da quarant’anni nell’industria. E, nei Paesi in cui questo fenomeno è più avanzato, come Corea del Sud, Germania e Stati Uniti non c’è disoccupazione tecnologica.
Penso invece che le mille forme dell’intelligenza artificiale debbano essere inquadrate come una grande riserva di capacità di azione. Prima di pensare alle sue applicazioni, immaginiamole come l’elettricità, un “portatore di energia” in grado di alimentare muscoli digitali che possono servirci per risolvere problemi su richiesta, ovunque ce ne sia bisogno e migliorare la nostra produttività. Ma i muscoli non aiutano a decidere cosa è importante, né quali sono le priorità, né cosa è opportuno delegare alle macchine. Questi sono perimetri umani e saranno sempre esclusivamente umani.

C’è bisogno di un’appropriazione collaborativa dell’intelligenza artificiale

Quindi, dal mio punto di vista, è scorretto incolpare l’intelligenza artificiale quando leggiamo – per esempio – di algoritmi bancari che agiscono in modo discriminatorio, negando mutui alle donne e concedendoli a maschi bianchi. Piuttosto interroghiamoci su chi ha lasciato prendere questa decisione a un algoritmo e chiediamoci come mai quella banca non abbia politiche per promuovere l’uguaglianza di genere.
E allora il grande tema da affrontare è: chi gestirà questi muscoli digitali? Chi li controllerà? Chi avrà accesso a questa enorme capacità di azione? Oggi le risposte provengono da pochi soggetti privati che dominano il mercato. E che, quindi, si concentrano su ciò che genera profitti. Ecco perché c’è più denaro investito in algoritmi di raccomandazione applicati alla pubblicità online che in quelli per affrontare problemi ambientali e sociali.
Secondo me c’è bisogno di un’appropriazione collaborativa dell’AI e, per fortuna, l’Artificial Intelligence Act della Commissione Europea va in questa direzione. Si tratta di un framework normativo sui sistemi di AI e ha l’obiettivo di indirizzare questa forza produttiva anche verso il bene della società, conciliandolo con i bisogni del business e con la difesa dei diritti individuali. Certo, non dobbiamo illuderci di avere risultati immediati, perché un coordinamento a questo livello richiede tempo. Ma ciò non deve scoraggiare. Anche se la tecnologia si muove più in fretta, non sottovaluterei le capacità umane di prendere decisioni per la collettività. Del resto, anche il percorso che ha portato al GDPR non è stato breve ma, oggi, l’Europa ha la normativa più avanzata al mondo sulla protezione dei dati.

Lei sostiene che il verde e il blu sono la base dello sviluppo umano. In che modo questo tema riguarda anche le organizzazioni?

Per me il “blu”, e cioè il digitale, a sostegno del “verde”, inteso come tutti gli ambienti in cui passiamo il nostro tempo, permette risparmi enormi e nuove opportunità. Il perimetro del verde è oggi molto ampio: include anche il benessere negli spazi lavorativi e sociali.
Oggi una strategia e una cultura che integrino il verde e il blu sono in grado di rinforzare gli asset intangibili, sempre più importanti nel determinare il valore delle organizzazioni: pesano per oltre l’80% delle aziende S&P 500. Non è insomma qualcosa che va affrontato solo nelle sue implicazioni morali ed etiche, perché rischierebbe di coinvolgere solo le imprese che possono permettersi investimenti importanti e una prospettiva di lungo periodo. Mentre il verde e il blu sono il business di oggi. Se gestiti bene generano profitti, se sono una facciata provocano danni enormi. Interpretare il verde e il blu solo come marketing e pubbliche relazioni è perdente da tutti i punti di vista: richiede comunque investimenti, non cambia l’approccio di mercato e in più – perché inautentico – allontana i talenti dalle organizzazioni.