Abbattere i muri non basta. Gli open space tra esperienza e identità

Companies Abbattere i muri non basta. Gli open space tra esperienza e identità

Spazi di distrazione o esempi da seguire? Intrecciati con la storia dell'architettura, gli "uffici aperti" funzionano quando sono vissuti come "luoghi attivi", da trasformare per innescare creatività e collaborazione

Sono tante le aziende che stanno ridisegnando i propri spazi, affascinate dall’idea di creare dinamismo nei team di lavoro, di promuovere la collaborazione e lo scambio di expertise. E quasi sempre c’è un risultato comune, che va al di là dello stile e dell’edificio scelto: è l’open office. Si tratta di una decisione trasversale: le aziende più grandi o le startup più piccole preferiscono gli ampi spazi con poche barriere e tavoli condivisi. Ma sull’efficacia di questa formula, non ci sono pareri unanimi.

Quando gli open space generano isolamento

In molti casi, gli uffici aperti hanno generato un aumento della collaborazione tra team, della soddisfazione delle persone e un miglioramento della comunicazione. D'altra parte, però, gli open office possono causare distrazioni continue, perché – in questi spazi – è più complicato ritagliarsi la propria privacy e prendere decisioni in autonomia. Sono considerazioni che emergono da molti sondaggi e rilevazioni empiriche: un numero consistente di persone, negli open space, prova a isolarsi, infilandosi le cuffie o mostrandosi più occupato di quanto non sia in realtà. Non solo. Uno studio del 2013 (di J. Kim e R. de Dear) ha messo in evidenza gli effetti dell’adozione del modello open space sulla quantità delle comunicazioni in presenza, via email e attraverso messaggistica istantanea. Monitorando le interazioni fra le persone di due grandi aziende che hanno rivoluzionato i propri uffici, si è visto che il volume degli scambi faccia a faccia è diminuito del 70%, a favore di un aumento degli scambi virtuali.

Impariamo dalla storia dell’architettura

Dobbiamo pensare, allora, che gli “uffici aperti” non funzionino? No, piuttosto sembra che questo modello sia stato ripreso e copiato così tante volte, che se ne è perso il senso profondo: come un telefono senza fili che abbia involontariamente snaturato la parola originaria. Proviamo allora a tornare indietro nel tempo, all’epoca di uno dei padri fondatori dell’architettura moderna, Frank Lloyd Wright.

Se è vero che i primi uffici aperti si attestano già intorno al 1700, è anche vero che solo nel 1900 si diffondono negli USA, come conseguenza dell’aumento di persone impiegate nelle aziende. Il 1939 è l’anno della loro consacrazione, grazie a Frank Lloyd Wright e al suo progetto per la SC Johnson, azienda produttrice dell’insetticida Raid. Wright vuole aprire la struttura dell’ufficio, creare un ambiente in cui sia piacevole stare tutto il giorno. Così progetta soffitti altissimi da cui penetra luce naturale in abbondanza, colonne sottili dalla forma di tronchi d’albero, postazioni singole ben distanziate e disposte secondo una planimetria fluida.

Il risultato è che le persone “non volevano più tornare a casa”. A Wright fanno eco tanti altri protagonisti della storia dell’architettura, come il movimento tedesco Bürolandschaft – che idea planimetrie fluide e organiche pensate per “isole funzionali, ovvero corrispondenti ai diversi reparti direzionali o operativi – e come Herman Miller – che propone l'action office, uno spazio che si può riorganizzare facilmente utilizzando componenti modulari. Infatti, secondo Miller gli arredamenti e i muri non devono limitare le interazioni, al contrario, devono facilitarle. Quindi, l’open office è il risultato di uno studio il cui obiettivo è migliorare l’experience degli impiegati.

Dalla teoria alla pratica: la relazione tra spazio e persone

Ripartire dall’idea originaria di open space significa prendere in esame le esigenze delle persone: la loro necessità di avere uno spazio personale sufficiente a sentirsi a proprio agio, a cui si risponde creando spazi più ampi nei quali le persone non siano stipate le une accanto alle altre. Oppure, ancora, dalla necessità di avere maggiore privacy, a cui si può rispondere con un numero maggiore di stanze, in cui isolarsi per lavorare in tranquillità e ricaricare le batterie, e con un design che permetta a chi sta lavorando di non sentirsi alla mercé degli sguardi altrui e quindi costringendo le persone a spostarsi nell’ufficio senza passare alle spalle di chi è seduto.

Alcune organizzazioni hanno già intrapreso questa direzione, che dà linfa all’idea originaria di una compresenza di apertura degli spazi e intimità personale. Il Campus 2, nuovo quartier generale di Apple, ad esempio: gigantesca struttura civile, progettata da Jony Ive, mago del design e autore di quasi tutti i prodotti della Mela. Dall’esterno sembra un’astronave e abbraccia un ampio parco. All’interno è composta da un nucleo dedicato al lavoro individuale e da una parte più esterna costituita da corridoi ad anello in cui incontrarsi intorno a un tavolo. Mentre, un esempio italiano è l’avveniristica redazione del quotidiano La Stampa, che si è adattata all’attuale esigenza dei lettori di essere continuamente informati. Fino a pochi decenni fa “la lentezza delle comunicazioni interne non era un problema e ogni settore operava in una propria stanza, priva di contatti con gli altri. La direzione era un luogo lontano, inaccessibile e misterioso, presidiato da segretarie incorruttibili. Quello che si decideva al mattino non cambiava quasi mai nel corso della giornata e se doveva essere pubblicato nella prima edizione nessun articolo poteva arrivare in redazione dopo le nove di sera”, spiega Vittorio Sabadin sulla versione digitale del quotidiano. Oggi invece le persone si informano “quando vogliono, dove vogliono e su che cosa vogliono” e le strutture redazionali devono essere pronte a rispondere a questa sfida.

Spazi di lavoro e nuove dimensioni del lavoro

A ben vedere, gli open office si diffondono per rispondere a un cambiamento più profondo: i task lavorativi non iniziano e non sono più vincolati a un unico luogo (l'ufficio). Pensiamo ad esempio allo smart working. Molte aziende hanno già cominciato a strutturarsi per permettere ai propri dipendenti di lavorare almeno in parte da casa, guadagnando in flessibilità e risparmiando in termini di tempo e di risorse.

Il luogo di lavoro, quindi, deve avere qualcosa in più: diventare uno spazio realmente più creativo, più collaborativo e più sereno. Per questo motivo, si parla sempre più spesso di space identity. Perché è questo che in fondo conta davvero, che il luogo di lavoro sia confortevole e permetta di entrare in relazione facilmente con altre professionalità per generare scambi.

Un esempio efficace di ambiente lavorativo che crea space identity è il co-working, uno spazio di lavoro condiviso in cui team di aziende diverse si possono contaminare a vicenda. E c'è chi sta andando oltre. Pensiamo a WeWork, che ha iniziato a sfruttare la sua esperienza nella progettazione di co-working per creare spazi lavorativi per le grandi aziende e a gestirli. Una specie di open-office-as-a-service, che comprende gestione degli ospiti, prenotazione delle conference room, coordinamento degli eventi e tanto altro.

Tra pareti mobili e punti fermi

In conclusione se le pareti non sono più inamovibili, muoviamole. In un open office che funziona, le persone non hanno più solo un tavolo e una sedia, ma tanti posti a disposizione: possono scegliere il più adatto a seconda di ciò che stanno facendo. Seguiamo l’esempio di Omer, manager di un team in Israele, e aiutiamo le persone, da una parte, a capire come utilizzare questi nuovi spazi, e dall’altra, a modificarli per adattarli alle proprie esigenze.