Luoghi complessi per comunità nomadi

Una Visione completamente diversa Luoghi complessi per comunità nomadi

Le comunità al centro del processo di sviluppo locale inteso come processo educativo devono essere luoghi intrisi di complessità, aperti e curiosi nei confronti di una innovazione che saprà ridisegnare le proprie tradizioni.

Il successo del bando governativo sulle green community suscita aspettative elevate. Innanzitutto per il sostantivo utilizzato: la voce “comunità” sarebbe parsa desueta - o almeno retorica - fino a non molti anni fa e oggi occupa invece uno spazio crescente nella considerazione delle scienze sociali. Non privo di ambizione anche l’attributo, “verde”, che ci conduce all’attualità del riscaldamento globale. Green community come declinazione territoriale di una green economy a cui spesso viene imputato il carattere di una operazione di facciata, greenwashing? O invece occasione e strumento di radicamento territoriale di un modello di sviluppo dove la dimensione sociale e quella economica della sostenibilità accompagnano una prioritaria esigenza di sostenibilità ambientale?

La risposta a questioni impegnative come queste possiamo cercarla solo nella intenzionalità degli attori politici e sociali del territorio, innanzitutto in una nuova considerazione dei processi di sviluppo locale intendendoli come veri e propri processi di apprendimento, dunque processi educativi nei quali, assieme agli attori che vi partecipano singolarmente o in collettività compartimentate in ruoli formalizzati e assieme alle organizzazioni deputate a gestire i diversi profili organizzativi, logistici e curricolari dei processi, al centro e nelle periferie, compare sempre più rilevante e meglio definita la fisionomia di un soggetto nuovo eppure antico.

La nuova considerazione istituzionale del processo di sviluppo locale come processo educativo coinvolge infatti, in un nuovo profilo di protagonismo e di responsabilità, le stesse comunità entro le quali il processo prende concretamente forma. Certo, per parlare oggi di comunità con una qualche efficacia descrittiva è necessario introdurre non poche precisazioni e distinguo rispetto al canone classico che, nella lezione di Ferdinand Tönnies, ha fonda- to la sua efficacia sulla distinzione tra comunità e società, e sulla distinzione parallela che leggeva nella modernità il passaggio dallo status al contratto. Al volgere del millennio la società capitalistica, uscita con grandi aspettati- ve – ma anche con un certo sconcerto – dalla lunga stagione del fordismo e forse cullata dalla prospettiva di fine della storia, ha rivolto una nuova attenzione alla comunità, che può e deve essere immaginata e rappresentata non più solo come il residuo di un ordine passato di cui si può al massimo avere nostalgia, ma come una realtà di nuovo viva nella seconda modernità, ricca di implicazioni e di possibili progetti evolutivi, fino a configurarsi di nuovo come una categoria primaria del discorso politico, polo di una nuova possibile diade capace di sostituire la coppia ormai logora ma difficilmente superabile di destra/sinistra.

È tempo di rileggere Ferdinand Tönnies

Nella ripresa di attenzione alla dimensione comunitaria delle relazioni sociali è forse venuto anche il tempo per una rilettura e una riconsiderazione della originaria lezione di Fedinand Tönnies e della sua suggestiva contrapposi- zione tra Gemeinschaft e Gesellschaft, cercando di indagare nuovi depositi di significato nella coppia organico/meccanico che Tönnies associa alla coppia comunità/società, in un modo forse più diretto ed esplicito – e sicuramente più eloquente ai nostri occhi – della coppia status/contratto cui viene più usualmente associata.

Se accettiamo la centralità di questa seconda associazione e se a organico associamo la nozione della complessità come elemento distintivo che caratterizza il nuovo paradigma scientifico biologico/organico e il suo rispecchia- mento metaforico nelle scienze sociali, potremmo anche trarne una ragione nuova per interpretare il successo della dimensione comunitaria e della sua ricerca nella seconda modernità, da rintracciare nella ricognizione di nuovi orizzonti e cornici di senso nella organizzazione della vita quotidiana che ribolle in profondità nelle viscere della società contemporanea.

Orizzonti più profondi e più articolati di quelli costruiti dallo scambio di prestazioni di utilità (nella sfera del mercato) e dall’esercizio di diritti (nella sfera delle relazioni istituzionali), ricercati piuttosto nella pratica gratuita del dono che esprime però l’esigenza di incontrare nel prossimo non l’estraneo che la civiltà urbana ci consegna, ma la persona con la quale ci si può convincere di condividere uno spazio di valori ricercato, un mondo di elezione e non solo di destino, un luogo.

La comunità può e deve essere immaginata e rappresentata come una realtà di nuovo viva, ricca di implicazioni e di possibili progetti evolutivi

I luoghi, paesaggi dell’anima In questo essere luogo, attraversato dalla vita, possiamo leggere il complesso sedimentarsi di in- formazioni, vicende della storia naturale e di quella sociale, biografie e sentimenti. E ritrovarci il messaggio profondo di un paesaggio dell’anima che – in questo nostro sentire – si accompagna e si sovrappone al paesaggio reale e contribuisce a renderlo lontanissimo dalla riduzione meccanicistica alla sua visione come panorama, come immagine di cartolina. Un paesaggio dell’anima che ci avvicina ad altre persone che, come noi, traggono dai messaggi che quei luoghi ci rendono, percezioni e sentimenti non (troppo) dissimili dai nostri, convincendoci (illudendoci?) di appartenere a una stessa comunità di luogo – anche se non a una comunità di sangue – e tuttavia capace comunque di trasferirci inavvertitamente, come per averli introiettati con il latte mater- no, attitudini, orientamenti e comportamenti che, proprio come quelli di una tradizione premoderna, trascendono il calcolo utilitaristico e, apparentemente, anche l’esercizio individualistico dell’arbitrio libero per avvolgerci in una azione collettiva, tanto più efficace e convinta quanto più si colloca alla micro-scala e dal cui calore la liberazione prometeica della razionalità economica sembrava averci separato. Luoghi, dunque, con la complessità infinita delle relazioni che li connettono nello spazio e nel tempo, nella dimensione materiale delle relazioni economiche della produzione e del consumo come in quella delle contaminazioni culturali. Pratiche sociali di connessione, contaminazione e scambio, rese in un sol tempo più vicine e immediate tanto quanto più impersonali e più sfumate dall’ingresso pervasivo delle tecnologie digitali e dalla loro comune pratica ossessiva.

Il villaggio dei nostri patti educativi non può che essere consapevolmente intriso di complessità, aperto e curioso nei confronti dell’innovazione

Per crescere un bambino c’è bisogno di un villaggio

In questi luoghi si intrecciano, per un momento più o meno breve (sempre più frequentemente) o per la vita intera (sempre meno frequentemente) le biografie degli individui, a formare famiglie, imprese, amicizie, amori, istituzioni. In questi luoghi e nel fluire degli eventi che li attraversa – ora sicuramente meno stabile che nel passato – costruiamo comunità che sempre più possiamo intravedere come comunità nomadi. È a queste comunità – e non ad altre, astratte e ideali – che affidiamo la possibilità di successo di un percorso evolutivo delle economie locali, non certo separato e disgiunto dalle dinamiche della globalizzazione.

Se è vero che “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” come dice un proverbio africano, il villaggio dei nostri patti educativi non può che essere consapevolmente intriso di complessità, aperto e curioso nei confronti di una innovazione che saprà ridisegnare le proprie tradizioni. Un villaggio, una comunità, che nell’esercitare una funzione educativa imparerà esso stesso innanzitutto ad apprendere. Perché anche qui, nella costruzione e nella manutenzione delle relazioni sociali del vicinato e della prossimità, learning is the work, come nella fabbrica del futuro.