Una Visione completamente diversa Confini permeabili per integrare le differenze
Ogni individuo è inserito in molteplici e differenti contesti, la questione che si pone è ragionare sui fattori che producono benessere e che costituiscono le pre-condizioni per un suo sviluppo. La comunità locale a cui aspiriamo costruisce solidarietà e supera le omologazioni.
La prospettiva comunitaria sta diventando sempre più urgente, ma cosa succede a livello psicologico in un individuo inserito in una comunità?
Ognuno di noi vive in molteplici e differenti contesti: sociali, gruppali, educativi, famigliari, lavorativi, comunitari. Il benessere di ogni soggetto deriva anche da quanto ciascuno di questi contesti è in grado di soddisfare i bisogni sia del singolo individuo, sia degli individui considerati nel loro “vivere insieme”, come collettivo. Tutti i luoghi/contesti che attraversano le nostre vite sono anche luoghi di relazione: dalle relazioni affettive e primarie, alle relazioni che si costruiscono a partire da un agire comune, sino alle relazioni estemporanee, casuali e che non ci sembrano importanti. Come ha spiegato il sociologo statunitense Robert Putnam, in una comunità sono importanti sia i legami forti, sia quelli cosiddetti deboli. I primi (legami bonding) soddisfano un bisogno di relazione e di appartenenza, mentre i secondi sono i cosiddetti legami-ponte (bridging), che permettono di accedere a informazioni e canali che mettono in collegamento gruppi, istituzioni, comunità, persone.
Diverse ricerche dimostrano che le relazioni sociali che offrono sostegno e supporto costituiscono un elemento importante per affrontare le situazioni di stress, costituendo un importante fattore protettivo, sviluppando benessere e riducendo il malessere psicofisico generato da eventi stressanti.
Quali però i limiti, le criticità, le insidie? Una comunità troppo coesa può alzare frontiere rigide ed escludere a priori chi non vi appartiene, producendo capitale sociale (e benessere) solo per chi ne fa parte, generando un confronto noi/loro volto a “proteggere” lo status quo dalle “insidie” di chi arriva da fuori. Inoltre, un eccesso di coesione può imbrigliare le persone al suo interno, generando una forte pressione all’uniformità e impedendo ogni idea creativa e innovativa. In questi casi si può anche sviluppare un forte controllo sociale, volto proprio a proteggere i valori tradizionali su cui la comunità si basa, escludendo o emarginando chi non si adegua a questi. Per questo è necessario sviluppare non solo legami forti ma anche legami deboli, funzionali a rendere i confini - reali o simbolici - permeabili, non rigidi, a favorire un’apertura all’altro, al “diverso”, a chi non appartiene ancora al “noi”.
A proposito del “noi”, in che modo una comunità non deve oscurare il ruolo degli individui, che non sempre hanno gli stessi bisogni?
Coniugare il “noi” con le specificità individuali è una sfida. Da un lato gli esseri umani hanno bisogno di vivere e sperimentare il “noi”, che indica proprio l’appartenenza e significa riconoscersi ed essere accettati come un “io” all’interno di un collettivo. Però il soggetto ha anche bisogno di esprimersi, ha bisogno di autorealizzarsi esprimendo le proprie peculiarità e la propria individualità, e ciò non avviene mai nel vuoto: una parte della nostra identità è definita anche da ciò che gli altri mi rimandano. Come ha illustrato Piero Amerio nel suo testo L’altro necessario, noi esseri umani siamo biologicamente esseri sociali, e abbiamo bisogno dell’altro per evolvere, sia come individuo sia come specie.
Non possiamo prescindere dagli altri anche nel costruire chi sono io
Una comunità “oscura” il ruolo degli individui? Sì, se la comunità, come ho descritto poc’anzi, non accetta la diversità e tende all’omologazione rifiutando qualsiasi tipo e forma di innovazione. Una comunità assume come valore la persona in sé (come fine in sé e non come mezzo, come ci ricorda Amerio citando Kant) dovrebbe rispettare le esigenze individuali, che si possono esprimere all’interno di un collettivo non omologante e non ghettizzante.
Più di un secolo fa, il sociologo Emile Durkheim aveva definito la solidarietà un collante sociale. La comunità locale a cui noi aspiriamo, forse in modo un po’ utopico, è una comunità che costruisce solidarietà – perché le persone hanno bisogno di sentirsi accettate e protette dagli altri – ed è basata sull’integrazione delle differenze, perché non omologa gli individui.
La partecipazione ha un ruolo fondamentale, ma spesso ci si divide tra una interpretazione spontaneistica e una direttiva, senza pensare a possibili sfumature…
La partecipazione nel senso profondo del termine è la possibilità del soggetto, o dei soggetti, di agire, di esserci e di avere voce in capitolo. Già alla fine degli anni Sessanta, la sociologa Sherry Arnstein aveva definito la “scala della partecipazione”, chiarendo che partecipazione non è semplicemente ascolto delle opinioni, o consultazione senza potere decisionale, ma la partecipazione prefigura che i soggetti possano interagire e intervenire anche nelle scelte di potere. Se ciò non succede, si tratta di una partecipazione mascherata e distorta (quella che viene definita come “tokenismo”).
La “partecipazione direttiva” è un non-sense: la partecipazione può essere stimolata, proposta, si possono (devono?) creare le condizioni per lo sviluppo di pro- cessi di partecipazione, ma la partecipazione non può essere direttiva; in questo caso si è in presenza di altro.
Inoltre la partecipazione sottende anche degli aspetti critici; è necessario valutare quali sono i suoi “costi” (in termini di tempo, risorse, possibili conflitti e altro) prima di proporre un processo partecipativo. Chiudo sottolineando, parafrasando uno dei padri fondatori della psicologia sociale, Kurt Lewin, che la partecipazione non è data, ma è necessario “educare” alla partecipazione.