Una Visione completamente diversa Quale design per le comunità trasformative?
Come il design può usare le sue capacità, strumenti e mindset per stimolare una creatività in grado di trasformare le comunità in positivo, abbinando la dimensione user centred a quella community centred
Per argomentare la domanda che dà titolo a queste brevi note credo sia opportuno partire da alcuni assunti.
Il primo fa riferimento al lavoro di un premio Nobel per la Fisica, Gerd Binnig, che descrive l’atto creativo come quel processo capace di abilitare nuove unità di interazione e, di conseguenza, nuove tipologie di relazione tra le cose. Aggiunge poi che la creatività sia l’attitudine di un sistema alla propria evoluzione (Binnig, 1991). Come dire che un sistema, dal piccolo al grande – come un gruppo famiglia, un’organizzazione d’impresa, una comunità di quartiere – possa evolvere (prendendo per positiva tale evoluzione), se in grado di esprimere compiutamente la propria creatività.
Il secondo riguarda il design e il suo nesso con i processi della creatività. Quest’ultima è, secondo Italo Calvino (1982), come la marmellata, una sostanza informe che assume senso quando spalmata su una solida fetta di pane. Il design sembra interpretare questa idea di creatività perché genera innovazione (cioè nuove unità di interazione) attraverso un processo di ricerca, solido, utile a delimitare i bordi del problema (design come problem finder, setter e solver) per individuare, minuziosamente, tutti i vincoli tecnici, economici, culturali e sociali, nel confronto con i contesti e con le situazioni. L’obiettivo di questo piccolo scritto è capire come può il design utilizzare le proprie capacità, gli strumenti, i metodi e il suo mindset per stimolare una creatività capace di trasformare, in positivo, le comunità. La premessa è che al centro del suo agire pratico non ci sia più (solo) il singolo utente bensì la rete di relazioni che si stabilisce tra stakeholder, accomunati da uno scopo comune, che solitamente associamo all’idea di comunità. In breve, come il design possa abbinare alla dimensione user centred un agire community centred, il che equivale a dire come possa mettere al centro della sua attività – in quanto oggetto di progetto – soluzioni per comunità, qualunque forma esse abbiano, per favorirne la transizione verso modelli di vita sostenibili (e perciò trasformative).
Che il design possa occuparsi anche di questo è ormai convenzione consoli- data nella disciplina, anche se lo è molto meno nella vulgata comune, laddove il termine è ancora, troppo spesso, associato a una dimensione puramente estetizzante. In realtà, secondo alcuni studiosi, oggi il design è già dentro un “quarto ordine” di attività, che supera gli antecedenti tre ordini relativi a comunicazione, prodotto, servizi/esperienze (Buchanan, 1992). Questo quarto ordine ha come oggetto di progetto i sistemi e in qualche modo anche le organizzazioni e rappresenta, di fatto, la complessità dell’agire umano. In questo quarto ordine rientra l’“oggetto comunità” e il sistema di relazioni tra individui che lo caratterizza. Il tema relazionale, d’altra parte, ha come chiave di volta la dimensione della “cura” (per sé, per l’altro, per la natura) che, oggi, è centrale nel dibattito del design, ribadendo la speranza dell’agire progettuale per il progresso sostenibile dell’umanità. Il prendersi cura è alla base del concetto di interdipendenze radicali formulato da Arturo Escobar (2018) e della teorizzazione di città di prossimità di Ezio Manzini (2021), studiosi di riferimento per la disciplina, entrambi attenti al dato relazionale.
Le teorie di Manzini e di Escobar prendono a riferimento la città con il complesso sistema di relazioni che la connota: emblema di un insieme indistinto e complesso di interessi, valori, dinamiche che caratterizza le comunità che la abitano. Le comunità che vivono all’interno di un quartiere, ad esempio, sono sistemi più o meno organizzati il cui principio ispiratore, secondo gli autori, dovrebbe essere quello del prendersi cura oltre che quello di sviluppare capacità di risposta creativa alle sfide emergenti e contestuali. Le due cose – prendersi cura e potenziare le capacità creative delle comunità – sono, probabilmente, due facce della stessa medaglia. Pertanto, alimentare queste capacità creative attraverso il design sembra essere una strategia possibile per prendersi cura e per orientare la trasformazione di gruppi e comunità. A conferma di ciò Rob Hopkins (2020), fondatore di Transition Town, sottolinea quanto si sia ridotta la capacità creativa delle persone nell’immaginare un diverso modo di vivere la città, maggior- mente partecipativo e coinvolgente, improntato alla creazione di soluzioni con il principio della cura al centro. Sforzi per superare una sorta di colonialismo capitalista dell’immagi- nazione, come argutamente osserva Richard Sennett (2018), per indurre le persone e le comunità a poter immaginare futuri possibili e desiderabili, sono all’ordine del giorno in iniziative come quelle di Transition Town o di altre realtà analoghe improntate a forme di attivismo creativo.
Alimentare capacità creative attraverso il design è una strategia possibile per prendersi cura e per orientare la trasformazione
È proprio Richard Sennett con la sua trilogia, composta da L’uomo artigiano, Insieme e Costruire e abitare, che sottolinea l’importanza di valori come lo stare insieme, la collaborazione e la co- operazione nel contesto di un mondo composto da interdipendenze radicali. In particolare, emerge nel suo lavoro un assunto: l’esercizio alla creatività passa attraverso il fare insieme. Il fare creativo richiede fiducia reciproca, accoglienza del pensiero altrui, responsabilità e rispetto. Una felice analogia è quella con la teoria dell’esperienza ottimale o flusso di coscienza (Csikszentmihalyi, 1975), laddove – nell’individuo – un felice allineamento tra emozioni, cognizione, percezione, è risultato dell’equilibrio tra capacità individuali (quello che so fare) e sfide esterne (quello che mi si chiede di fare) e genera una sensazione positiva di benessere. Nei processi creativi è stato evidenziato un fenomeno analogo, un flusso di coscienza collettivo (Sawyer, 2003), un networked flow che può essere usato come chiave di lettura delle dinamiche delle comunità creative e dove, ancora una volta, il “fare” (insieme) svolge il ruolo di attivatore di tale flusso.
Il design, quale disciplina orientata al fare, nonché dimensione creativa per definizione, quale ruolo può svolgere per poter sostenere questo processo di networked flow creativo, che si prenda cura, che cooperi nel fare, che si riconosca a partire da uno specifico purpose?
Il designer mette a disposizione le proprie capabilities per visualizzare le inter- dipendenze radicali esistenti, per dare voce a chi una voce non ce l’ha (il more than human o le istanze delle generazioni che verranno), aiutando a scomporre la complessità, prototipando soluzioni utili per favorire trasformazioni sostenibili, tenendo conto dei diversi “talenti” degli individui con cui opera, calibrando le loro capacità di risposta alle sfide proponibili di volta in volta. In quanto potente storyteller, il design contribuisce a dare corpo a quelle narrazioni che rendono riconoscibile un gruppo, individuando il purpose che può accomunare gli individui e orientarli verso obiettivi condivisi. È lì a supportare una sorta di trasformative community mind, agendo come attivatore di nuove interazioni rituali attraverso potenziali oggetti di scena, artefatti che diventano veri e propri meme di un gruppo, rendendolo riconoscibile e fungendo da collante tra i membri del gruppo stesso, a potenziare un senso di appartenenza che facilita e potenzia il fare creativo.
Mettendo il tema della cura al centro dei processi di design, i designer contribuiscono alla creazione di comunità che prosperano e nutrono i loro membri, assumendo le responsabilità di moderatori di dialoghi e facilitatori di processi di transizione e innovazione. La sfida che ne deriva riguarda an- che l’educazione dei designer e le nuove capacità che dovranno acquisire: in un contesto di trasformazioni sistemiche, i designer dovranno coltivare abilità essenziali come l’ascolto attivo, la narrazione e la promozione della condivisione per fungere da catalizzatori di un cambiamento guidato dalla comunità, garantendo che voci diverse siano ascoltate e che le autentiche esigenze della comunità siano affrontate.