Design Open Design Management
La Governance dei processi aperti e la nuova evoluzione dell'Art Direction.
sintesi
Che succederebbe se ai Clienti si chiedesse di collaborare con un team di designer al progetto di un prodotto o di un servizio, mettendo a frutto la propria esperienza di utenti per trasformarla in visione da progettisti? E se un’azienda rendesse pubblici i piani di un nuovo business, il codice e le versioni beta di un software, o chiedesse ai Clienti di contribuire col proprio bagaglio di esigenze, intuizioni, preferenze, a migliorare la user experience di un servizio o l’immagine di un brand?
Domande che fino a qualche anno fa erano un tabù sono oggi il pane quotidiano di tutte quelle imprese che hanno deciso o stanno valutando di affidarsi a politiche open.
Si chiama “open design”: formula mutuata dal mondo del free software e dell’open source che si basa sul ricorso a processi di progettazione “aperta” su più livelli. Significa lavorare in “modalità beta” a software, prodotti, servizi, brand, e condividerne e visualizzarne in tempo reale lo stato di avanzamento, gli aspetti migliorabili e le possibili interpretazioni; significa anche coinvolgere una base di “partecipanti” enormemente più ampia rispetto agli approcci tradizionali e non più di soli addetti ai lavori, quanto piuttosto di persone che spesso già conoscono l’azienda o il prodotto, e che perciò possono anticipare bisogni e utilizzi e moltiplicare il numero di idee e spunti disponibili.
Spesso, però, è più facile a dirsi che a farsi. Perché, in sostanza, la partecipazione e le opportunità aumentano ma, di conseguenza, aumentano anche i livelli di complessità da gestire. Ed è qui che torna in gioco il designer, in un ruolo diverso e più evoluto. Da realizzatore a catalizzatore di idee, da attore protagonista a regista e garante dei processi di innovazione. In pratica si tratta di integrare il lavoro di team di progettazione interni ed esterni allo scopo di allineare tutte le espressioni del “brand” agli obiettivi strategici, senza perdere (e far perdere) mai di vista il senso complessivo di ciò che si sta facendo. Il problema centrale dell’open design in ambito d’impresa è quindi quello di fare in modo che un’organizzazione complessa riesca a realizzare un’idea semplice. Bisogna dunque prima identificare ed articolare una buona idea, e poi fare in modo che centinaia – anche migliaia – di persone lavorino su di essa, all’unisono.
Per decenni il design – chiuso nella sua “bolla” professionale- creativa – ha svolto pazientemente un ruolo considerato marginale o di solo “supporto” rispetto ad altre attività aziendali ritenute invece prioritarie o più strategiche. E, fino a ieri, le aziende hanno quindi usato il design quasi esclusivamente come un “salone di bellezza” da cui far passare brand, prodotti o campagne di comunicazione appena prima del loro lancio.
Ne era stato sottovalutato il potenziale nel creare la cosiddetta “rule-bending innovation”: innovazione, sì, ma “piegata” a delle regole.
E quando i gradi di libertà e la complessità aumentano, di regole ce n’è ancora più bisogno.