Society Lo scenario. Di cosa parliamo quando parliamo di skill
Allarghiamo lo sguardo. Ecco i cambiamenti nella società che rendono necessario un nuovo approccio allo sviluppo delle persone
- Non solo stanno nascendo nuovi lavori, ma ogni mestiere si sta dotando di un nuovo senso
- I cambiamenti sono sempre più imprevedibili e non rispondono solo all'evoluzione tecnologica
- La quarta rivoluzione industriale provocherà l'automazione di molti lavori, ma c'è un altro rischio: il diffondersi di mestieri senza alcun impatto, che generano spreco di talento e scarso impatto economico
L’85% dei lavori del futuro non è ancora stato inventato, lo afferma un report dell’IFTF. Così come quasi il 50% delle posizioni aperte negli ultimi 5 anni, non esisteva nei precedenti 5. Per averne conferma, è sufficiente scorrere LinkedIn, dove troviamo job title con vita davvero breve: conversational interface architect, omnichannel planner, requirements engineering ninja. E la lista potrebbe continuare.
Non si tratta (solo) di nuove etichette. Le relazioni tra mestieri e ruoli professionali assumono nuove traiettorie e si mixano. Se, nelle posizioni tradizionali, questo rapporto è diretto (un ingegnere fa l’ingegnere e un manager il manager), nelle nuove posizioni il “cosa faccio” non è più una risposta stabile nel tempo. I lavori richiedono capacità di visione sempre più ampia, una “augmentation strategy”, per citare il Future of Jobs Report 2018 del World Economic Forum.
Se i nomi delle professioni cambiano, servono competenze in grado di riempirle di senso. Altrimenti, rischiano di rimanere scatole vuote o – peggio – posizioni senza alcun candidato idoneo. È un aspetto non trascurabile dello skill shortage: l’assenza delle competenze necessarie a svolgere un determinato ruolo. È l’effetto più superficiale di una trasformazione sociale, economica e produttiva che coinvolge ogni attività e che sta producendo visioni radicali. C’è chi prevede la fine dei job title e un futuro (prossimo) in cui ci saranno solo ruoli, definiti in base a un insieme mutevole di skill: personali, collaborative, da acquisire nel tempo. È un cambio di prospettiva che risponde a due esigenze principali: la capacità di adattamento e la gestione della complessità.
Perché sta accadendo tutto ciò? Semplificando, le trasformazioni sono sempre più rapide, frequenti e questa accelerazione non si fermerà finché ci saranno due caratteristiche nell’economia: globalizzazione e connessioni digitali. Ogniqualvolta emergono nuove esigenze delle persone, vengono intercettate e trasformate in nuovi trend, diffusi su scala planetaria. Che le organizzazioni devono soddisfare con nuovi prodotti e servizi: tanto più la loro risposta sarà rapida, tanto più le aziende potranno ritenersi competitive. Quindi le imprese devono comprendere, progettare, testare, realizzare e distribuire. In media, i cicli di lancio sono passati da due anni a sei mesi. E tendono a ridursi ancora.
Le relazioni tra mestieri e ruoli professionali assumono nuove traiettorie e si mixano
Con la rapidità delle trasformazioni, aumentano anche gli imprevisti. Non tutti i cambiamenti avvengono lungo una linea che, più o meno ripida, segue l’evoluzione tecnologica. Negli ultimi anni, si sono verificati eventi che l’economista e filosofo Nassim Taleb definisce “cigni neri”: episodi non previsti con conseguenze potenzialmente negative per il mondo intero. Pensiamo a Brexit o, ancora, al Dieselgate, che ha azzerato l’aspettativa di vita di una tecnologia che – senza lo scandalo del 2015 – avrebbe avuto molti più anni davanti a sé.
Questi fenomeni impattano sulla strategia delle organizzazioni. Che sono fatte di persone: bisognose di strumenti, competenze, nuove capacità. Non solo per eseguire compiti, ma per comprenderne il senso. Non è un caso che – tra le competenze del futuro più citate – ci sia un universo molto vasto di parole legate alle cosiddette soft skill: problem solving strategico, capacità analitiche, decision making. Necessarie non più solo ai manager, ma a qualunque tipo di lavoro. Sono abilità che superano le competenze tecniche (la capacità di programmare o usare un software) ed entrano in una sfera “culturale” in cui è difficile trovare una definizione univoca.
Le forze che destabilizzano la definizione e la formazione di nuove skill sono già attive
Finora – di proposito – abbiamo lasciato da parte la quarta rivoluzione industriale. Algoritmi, robot e sistemi autonomi, in un futuro non troppo lontano, si impossesseranno di intere filiere produttive. Secondo una visione ottimistica, le macchine – alle quali verranno affidati compiti “operativi” – faranno aumentare la qualità del lavoro (meno ore davanti a una scrivania, meno azioni ripetitive). Per realizzare questa prospettiva, le aziende, con il supporto dei policymaker, devono supportare le proprie persone in processi di reskilling e upskilling (ricollocare abilità e potenziarle) per impiegare talento e le migliori qualità umane nella generazione di nuovo valore.
L’automazione è uno spettro incombente, ma le forze che stanno destabilizzando la definizione, la ricerca e la formazione di nuove skill sono già attive (e la tecnologia non è l’unica protagonista). Le questioni aperte sono molte e, se rimangono senza risposta, attivano un altro tipo di trasformazione. Che rende ogni lavoro un potenziale bullshit job, secondo la definizione di David Graeber. Attività in cui si applicano competenze non più utili, in un contesto ormai mutato. Sono impieghi che sopravvivono per inerzia: hanno perso il loro senso e producono azioni prive di valore. Generano spreco di talento e scarso impatto economico. E allora, come – attraverso le competenze e il potenziamento continuo – le persone possono continuare a essere rilevanti, nelle organizzazioni e per la società?