La dimensione collaborativa della scienza

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1 di 2 – Intervista a Marco Bersanelli, professore ordinario di astronomia e astrofisica all’Università Statale di Milano.

A volte capita di tornare in università dopo anni dalla propria laurea e chiedersi perchè non si sia continuato a studiare. A noi è successo con il professore ordinario di astronomia e astrofisica all’Università Statale di Milano Marco Bersanelli, intervistandolo sulle intersezioni tra scienza e collaborazione.

Quali sono le condizioni che facilitano la collaborazione?

Prima di tutto, è essenziale la consapevolezza dello scopo comune che si ha. Consapevolezza che cresce nel tempo, che non è “on/off”, perché il diventare sempre più consapevoli del valore e della bellezza a cui si tende è un processo. Altro aspetto fondamentale è la considerazione del lavoro altrui: da soli non si va da nessuna parte. Il lavoro dell’altro è come un “bene” per me, nel momento in cui andiamo nella stessa direzione. Autorevolezza della leadership: il leader deve saper valorizzare il singolo e creare empatia con lo scopo che si deve raggiungere. Allora un leader diventa autorevole e la gente ascolta volentieri e domanda un coordinamento, situazione molto diversa da un coordinamento imposto che nella ricerca scientifica non funziona.
Chi guida deve far percepire tutto lo spazio della libertà del contributo del singolo. L’autorevolezza del leader diventa uno strumento di crescita di sé, affinché il singolo possa godersi di più il proprio lavoro, in un clima lavorativo intenso e positivo.

Come descriverebbe i processi collaborativi che coinvolgono più team internazionali? Pensiamo ad esempio alla missione dell’ESA Planck alla quale ha lei stesso lavorato…

La complessità non fa che rendere più decisive le dinamiche descritte prima: l’autorevolezza del leader è vitale. Nessuno fa una cosa solo perché qualcuno gli ha detto che la deve fare: nella ricerca scientifica non vale. Occorre condividere lo scopo di ogni passo che si fa, solo così si può accettare che a volte si debba sacrificare un percorso a favore di un altro, anche se si è già fatto un pezzo di strada. È interessante come a un certo punto le persone sono indirizzate a ottimizzare il percorso globale della ricerca non solo top-down ma anche bottom-up: ognuno si chiede “Ma come io posso essere più utile? Come posso essere utile al processo nel suo insieme, magari modificando il mio contributo?” nasce spontanea l’esigenza di fare un bel lavoro. La qualità che è richiesta per una missione spaziale dove la complessità è “impossibile” dipende dalla libera adesione del singolo, affinché il proprio contributo sia veramente efficace.

Come descriverebbe i processi collaborativi in situazioni e ambienti difficili, come ad esempio la base Antartica Amundsen-Scott?

Al Polo Sud, poche decine di persone vivono in spazi stretti, in un ambiente “non favorevole”: per una convivenza così difficile servono regole ben precise. La regola è percepita come un aiuto, non come un’imposizione. C’è una fiducia della leadership del coordinatore della base, che non è burocratica, è fondata sulla stima personale, che diventa più cruciale in situazioni estreme. Per lavorare in modo collaborativo, quali sono le qualità umane, personali e relazionali che un ricercatore deve possedere? Sentire l’altro come un bene. Come suo contributo nel lavoro e come compagnia nel tempo che si condivide. I rapporti di lavoro sono rapporti umani. Percepire l’altro come un’opportunità di crescita umana. Soprattutto se si hanno delle responsabilità, è bello vedere come gli altri siano contenti del lavoro che fanno. La fatica può essere fatta con un cuore più leggero. È importantissima la capacità di ricominciare quando si è sbagliato o quando qualcosa è andato male. Sbagliare è normale, il punto critico è quello dopo: come ricominci? Vuoi ricominciare? E come percepisci gli altri? Come un bene o come una minaccia?

Un team eterogeneo favorisce la collaborazione o la complica?

Se c’è un clima sereno e di stima reciproca, l’eterogeneità diventa un valore. Altrimenti diventa uno dei tanti pesi. Se una persona ha un’ambizione alta, allora la diversità del team diventa una ricchezza.

Quali sono i momenti collaborativi nella ricerca scientifica?

Ogni momento ha in qualche modo una dimensione collaborativa. Anche quando uno lavora da solo, ha ben presente che è inserito in un contesto allargato. Nella mia esperienza non c’è nulla che possa sostituire una discussione faccia a faccia, in presenza. Nessuna tecnologia può soppiantare un incontro diretto. Anche l’ascolto dei giovani, degli studenti, tipo durante una tesi di laurea… sono i rapporti diretti a fare la differenza, anche nella formazione. Non si può rinunciare ad un contatto diretto nella collaborazione. Ci si sente parte di una storia, non soltanto una sua estensione.

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