Scalare gli impatti

Una Visione completamente diversa Scalare gli impatti

Le comunità trasformative assumono forme diverse, modellandosi in base ai bisogni emergenti delle persone. Così facendo modificano l’ecosistema che abitano, per generare impatti positivi.

Finora abbiamo descritto alcune invarianti che – secondo noi – caratterizzano le comunità trasformative. Le abbiamo immaginate come oggetti multidimensionali attraversati da esperienze, che iniziano attivando scambi e si evolvono trasformando i partecipanti e gli ambienti con i quali interagiscono. Ma queste tipologie di comunità non possono avere tutte la stessa forma, altrimenti si tratterebbe di artefatti costruiti in serie. Con una conseguenza: finirebbe per mancare una caratteristica essenziale, la capacità di modellarsi in base ai bisogni emergenti e di scalare, permeandosi sempre di più con gli ecosistemi con i quali entrano in relazione. Invece – quando una comunità trasformativa prospera – le dimensioni che abbiamo individuato si strutturano sempre di più. Gestire la quotidianità quindi si rivela fondamentale: è l’orizzonte progettuale da indagare, per evitare ogni forma di astrazione.

È un passaggio importante, perché parlare di comunità non è un argomento nuovo, ma il loro perimetro di applicazione è tradizionalmente limitato a contesti di piccole dimensioni, prevalentemente locali. Invece introdurre nella progettualità concetti come scalabilità e impatto è un tema che sta guadagnando sempre più rilevanza. Sta allargando lo spazio d’intervento degli approcci community-centrici, rendendoli potenti abilitatori di innovazione sociale e acceleratori di nuove forme di collaborazione. Lo dimostrano alcune pubblicazioni recenti che hanno indagato queste dinamiche trasformative, in vari contesti: nei modelli organizzativi (Joost Minnaar e Pim De Morree in Corporate Rebels); nelle “super esperienze” generate dalle nuove modalità di lavoro (Jeremy Myerson e Philip Ross, The Reinvention of the Modern Office) o nei cambiamenti di sistema (Dan Hill – Vinnova, Designing Missions).

È un argomento quasi inesauribile, ma per orientarci, può essere utile partire dai modi in cui la letteratura identifica le comunità. Per poi lavorare sulle dimensioni e le dinamiche esperienziali che abbiamo descritto. Così possiamo centrare un obiettivo: individuare le prospettive trasformative in grado di favorire la scalabilità e generare impatti positivi. Si tratta di un punto di vista aperto e non tassonomico, che vuole estendere la portata di questi “sistemi viventi”, senza diluire l’unicità di questi “sistemi viventi”.

Evoluzione degli impatti

  1. Prospettiva trasformativa nelle comunità di interessi
    In un’epoca di trasformazioni, le persone hanno bisogno di ampliare le proprie conversazioni oltre le attività quotidiane e discutere su temi caldi, in modalità strutturata, evitando tifoserie e polarizzazioni.
  2. Prospettiva trasformativa nelle comunità di pratica
    Quando affrontare il cambiamento implica padroneggiare strumenti tecnici, le comunità di pratica diventano fondamentali. Perché, in ottica trasformativa democratizzano la conoscenza, rendendola tangibile.
  3. Prospettiva trasformativa nelle comunità relazionali
    Quando un ecosistema o un’organizzazione si evolvono, diventando estesi, ibridi e distribuiti diventa essenziale aumentare la scala e la frequenza delle interazioni.
  4. Prospettiva trasformativa nelle comunità di comunità
    Queste tipologie federano più attori interdipendenti: creano intersezioni e punti di contatto, preservando le identità delle singole organizzazioni che mettono in connessione e condividendo elementi di reciproca utilità.

Azione di scala nelle comunità di interessi: consolidare il nucleo

Attraverso dinamiche di convergenza, la comunità di interessi può attrarre punti di vista eterogenei preservando la rilevanza e allontanando gli elementi tossici e disgreganti.

Azione di scala nelle comunità di pratica: potenziare gli strumenti e gli ambienti

L’evoluzione delle comunità di pratica implica la co-creazione di strumenti e ambienti. Coinvolgendo e abilitando le persone al building e cioè a modellizzare, sperimentare e applicare una nuova conoscenza. Tutti gli artefatti nati con queste dinamiche entrano a far parte di ritualità condivise.

Azione di scala nelle comunità relazionali: nutrire le modalità di animazione

Per accelerare l’evoluzione delle comunità relazionali dando spazio alle persone in grado di stimolare, celebrare e interagire (ruoli di weaving), preferendo contenuti e formati snelli e in grado di viaggiare velocemente.

Azione di scala nelle comunità di comunità: generare nuove forme di coesione

Per far progredire cambiamenti sistemici è importante lavorare sull’interdipendenza di più attori, mettendo in relazione e condivisione risorse tra comunità e alimentando una cultura multi-valoriale.

Prospettiva trasformativa 1. Le comunità di interessi

L’antenato sociale di questa tipologia di comunità include tutte le forme aggregative che si consolidano intorno a un tema specifico (per semplicità: le fanbase di una band o una squadra sportiva). Oggi si parla molto di comunità di interessi perché – in un’epoca di trasformazioni – le persone hanno bisogno di discutere su temi urgenti (come lo sviluppo tecnologico, il riscaldamento globale, il miglioramento del proprio stile di vita ecc.). Ma le conversazioni episodiche non portano lontano: per andare lontano c’è bisogno di modalità strutturate, che facciano convergere punti di vista eterogenei, provenienti da una moltitudine di luoghi ed esperienze che convergono nella comunità.

Affrontando le comunità di interessi in ottica trasformativa, la dimensione che ha bisogno di più attenzione è quella del nucleo, intorno al quale si sviluppa il senso di appartenenza. Ma, proprio perché questa tipologia di comunità deriva geneticamente da dinamiche che invogliano alla tifoseria, hanno bisogno di anticorpi forti. Perché un interesse può essere comune, ma persone diverse portano punti di vista eterogenei e opinioni distanzianti che – se non gestite – possono avere effetti disgreganti.

Non a caso, l’azione chiave nello spettro di partecipazione per intervenire nel nucleo è la convergenza. In questa tipologia di comunità, infatti, sarà necessario far convergere un’area di interesse in relazione al progetto comune che si sta perseguendo (che può essere legato allo sviluppo di un tema in un’organizzazione, all’evoluzione di un prodotto, ai bisogni di un territorio).

Quando il nucleo riesce a captare tutti gli argomenti e le novità che trasformano un interesse (astratto) in qualcosa di concreto e utile nella vita di tutti i giorni, l’impatto tangibile è l’evoluzione culturale di tutti i partecipanti. In più la comunità svilupperà quelle difese necessarie a evitare tutte le forme di polarizzazione, che distaccano i punti di vista dall’obiettivo comune che si vuole raggiungere. E ciò è tanto più importante quando gli interessi riguardano temi caldi come la sostenibilità, l’inclusione o la coesione sociale.

Prospettiva trasformativa 2. Le comunità di pratica

Nate nel mondo degli sviluppatori software, queste tipologie di comunità aiutano ad affrontare una sfida comune con competenze maggiori. In un mondo attraversato da trasformazioni, le comunità di pratica escono dal perimetro tecnico. Viviamo infatti in un’epoca caratterizzata da un’elevata specializzazione, che quindi ha bisogno di risorse e strumenti per essere padroneggiata. Per semplicità facciamo rientrare in questa tipologia an- che le comunità di mestieri che, per l’appunto, riguardano l’elevato con- tenuto specialistico delle nuove professionalità. Ecco perché, nelle comunità di pratica, è particolarmente importante la dimensione dei contesti e degli ambienti, cioè spazi nei quali i partecipanti possano acquisire, sperimentare e imparare a usare nuove risorse condivise dalla comunità.

Sono elementi che non nascono dal nulla e, per questo motivo, l’azione rilevante nello spettro di partecipazione coinvolge i builder, cioè quelle persone in grado di modellizzare nuovi oggetti, strumenti e ambienti al servizio della comunità. Per poi modificarli e farli evolvere, accogliendo nuovi bisogni.

Gli artefatti nati all’interno delle comunità di pratica entrano a far parte di ritualità condivise, che rivestono un’importanza particolare, perché sono in grado di accompagnare i partecipanti in percorsi di apprendimento di lunga durata e quindi accorciare la curva di apprendimento degli strumenti più complessi.

Prospettiva trasformativa 3. Le comunità relazionali

Sono quelle comunità in cui non dominano gli strumenti da padroneggiare, né i temi da discutere. In questa tipologia ciò che conta davvero risiede altrove: nella capacità generativa di dare e ricevere supporto. Possono rivelarsi molto utili in contesti territoriali (che, per esempio, riuniscono esigenze specifiche di un quartiere, abitato da persone molto diverse tra loro) oppure in contesti organizzativi distribuiti (in cui la “casa madre” si propaga in una rete diffusa, che include spazi molto più vasti degli uffici tradizionali).

La forza di queste comunità sta nell’essere costantemente connesse con un contesto reale, fatto da problemi da risolvere e soluzioni da generare che, attraverso le relazioni, vengono diffuse in modo rapido e puntuale. La velocità e la frequenza degli scambi tra i partecipanti in questo caso è davvero cruciale. Ed ecco perché nelle comunità relazionali prevale la terza dimensione, quella dell’animazione. Infatti, i percorsi esperienziali attivati da queste comunità moltiplicano il numero di partecipanti in grado di sviluppare con- tenuti rilevanti e soluzioni specifiche, attivando confronti, eventi e forme di aggregazione fisico-digitali.

E quindi l’azione chiave nello spettro di partecipazione è il weaving, quella tessitura che continua ad alimentare relazioni, coinvolgendo nuove persone in questa missione.

Prospettiva trasformativa 4. Le comunità di comunità

Quest’ultima tipologia ha un ruolo di sistema, di federatore di comunità appartenenti a diverse organizzazioni e a diversi territori. Le comunità di comunità lavorano sulle intersezioni e sui punti di contatto. Fanno convergere due o più ecosistemi verso un progetto condiviso, mettendo in comune pratiche, linguaggi o interazioni. Quindi, in questo caso, non abbiamo una dimensione prevalente, ma tutte le dimensioni diventano porose, per accogliere elementi utili da altre comunità o, mettendo a disposizione le proprie risorse, per supportare un ecosistema più ampio.

Le comunità di comunità non inglobano gruppi per diventare un mega-organismo, ma creano un equilibrio dinamico tra più comunità che – pur mantenendo la propria identità – condividono tutti quegli elementi di reciproca utilità. Molte realtà associative fanno leva su questo concetto, oppure organizzazioni che includono più realtà imprenditoriali e perseguono sinergie non solo orientate alla riduzione dei costi, ma per alimentare una cultura multi-valoriale.

Uno sguardo progettuale per un cambiamento di scala

Come abbiamo accennato, nei contesti trasformativi le comunità non sono strumenti, ma permettono di percorrere una strada condivisa, abilitando nuove prospettive. È per questo motivo che ci siamo concentrati sulle modalità di formazione e di interazione delle comunità e non su settori specifici sui quali esse intervengono. Perché viviamo in un mondo in cui i silos han- no sempre meno significato. È questo il grande potenziale di un approccio People & Community centred: generare scambi e interazioni tra realtà che, in passato, erano isolate e sconnesse, attivando relazioni inedite tra comunità private, pubbliche, realtà for profit o enti caritatevoli, per far generare impatti su un sistema nel suo complesso.

Queste dinamiche relazionali hanno un vantaggio ulteriore: concretizzano il cambiamento in ambienti reali, che possono essere toccati ed esperiti da ogni singola persona, che acquisisce consapevolezza nuova. Ed è così che prende forma una trasformazione di scala.

Anticipare e orientare

Lavorare a partire dalle “forme delle comunità” (interessi, pratiche ecc.) crea un perimetro progettuale necessario, soprattutto in contesti a elevata incertezza. Altrimenti, per la molteplicità di attori coinvolti, un approccio People & Community centred rischia di perdere di omogeneità. Le forme di comunità, quindi, sono un primo punto di riferimento, utile a individuare le dimensioni alle quali dare spazio e le azioni da abilitare, per attivare le dinamiche di partecipazione più utili a innescare gli spettri di partecipazione.

È un primo abbrivio progettuale utile per osservare le interazioni e prepararsi a potenziali evoluzioni, correzioni di rotta o nuove risorse. Definire un peri- metro progettuale a partire da una forma di comunità (cioè interessi, prati- che, relazioni ecc.) è utile per evitare la creazione di grandi ambienti digitali che, per rispondere a tutto e tutti, sono destinati a rimanere stanze vuote. In questi contesti, infatti, fornire “di più” non è solamente inutile. Progettare più piattaforme, più tecnologia, più eventi allontana il raggiungimento di un obiettivo prioritario: la materializzazione degli scambi più rilevanti nei contesti più utili. Generando così disorientamento e, alla fine, disaffezione.

Per esempio, una comunità relazionale avrà bisogno di pochi strumenti agili per far sì che le persone si esprimano con maggior frequenza. Una comunità di pratica, invece, è in grado di prosperare anche con un livello di interazione basso, a patto che continui a fornire strumenti concreti, da utilizzare al momento giusto. E una comunità di interessi dovrà lavorare su un senso di appartenenza sempre più forte, per non far scemare l’attenzione delle persone riguardo un tema che – spesso – rischia di diventare fuori moda.

In fase progettuale, mettere a fuoco la tipologia di comunità non è utile solo nelle fasi iniziali di progettazione, ma è un esercizio continuo, perché le comunità si adattano e si trasformano – è la loro forza – e prevedere come potrebbero riassestarsi è una garanzia di partecipazione futura. Ed es- sere sempre pronti a generare nuovi ambienti di relazione o a rifocalizzare il linguaggio è un modo per nutrire la vita della comunità.

Non si tratta di pura teoria, ma di dinamiche sociali da supportare. Per esempio, alcune comunità nate come piattaforme digitali possono aver bisogno di condividere l’energia dei partecipanti, che si esplicita al meglio in un’occasione fisica. Viceversa, una comunità informale nata intorno a un interesse specifico può aver bisogno di risorse per continuare a discutere e – da questo punto di vista – un ambiente digitale può essere molto utile.

Un approccio People & Community centred, quindi, si nutre di progettualità ibride, per muoversi tra le dimensioni trasformative senza sclerotizzarsi in un’idea prefissata. E poi alimenta il flusso di esperienze che, moltiplicandosi tra i partecipanti, genera impatti positivi. 

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