People Alfabeto: G come generosità
L'alfabeto della collaborazione. Come può la generosità aiutare un’impresa a prosperare e che tipi diversi di generosità esistono?
Cicerone racconta che il condottiero Fabio Massimo diede ordine di vendere tutti i propri beni per riscattare i soldati romani tenuti prigionieri dai Cartaginesi. De Amicis nel suo libro Cuore racconta del ‘piccolo scrivano fiorentino’ che passa di nascosto le notti a fare il lavoro che suo padre, distrutto dalla stanchezza, non riesce a completare. Oggi abbiamo grandi magnati che donano fette significative della loro ricchezza.
La generosità è spesso presentata come qualcosa di eclatante ed ammantata di eroismo. Per questo facciamo fatica a riconoscerla nella vita ordinaria. Perché eclatanti eroismi non sono sempre alla luce del sole, non sono ‘normali’. E forse è una fortuna, come insinuava Bertolt Brecht. Il fatto però è che la generosità più necessaria non è quella ‘rivoluzionaria’, ma quella più modesta e ordinaria. Quella generosità che, proprio perché più comune (più diffusa, più frequente…), riesce a cambiare le cose in maniera profonda. Anzi le ha già cambiate.
Si dice che nessuna azienda può pensare di prosperare solo sulla base, di manuali, di procedure standardizzate talmente perfette da rendere superflue le ordinarie qualità e virtù umane, soprattutto quelle che si esercitano in un contesto collaborativo. Ecco: questo vale in maniera esemplare per la generosità.
1) La (prima) generosità ‘produttiva’ è quella che c’è già. Non quella che programmiamo di attivare. Si tratta di riconoscerla e valorizzarla. ‘È una risorsa che manager ed HR dovrebbero sfruttare’, si dice. Certo, ma sfruttare la generosità inaridendola, o trasformandola nel suo contrario è la cosa più facile che ci sia.
2) La generosità veramente feconda (e creativa) non è quella di chi “non si preoccupa di che cosa ne viene in cambio”, ma quella di chi si cura di rendere ad altri qualcosa che ha ricevuto e non vuole tenere solo per sé. Questa ‘diffusività’ (verso chi ci circonda, verso il nostro ambiente) della nostra esperienza è l’origine di ogni nostra vera generosità. Ecco perché è innanzitutto un fattore umano, di educazione e non solo uno skill programmabile. D’altra parte veramente generoso non è chi offre valore senza preoccuparsi di cosa ne viene in cambio. C’è una sorta di ottusità in questo comportamento e non è un caso che Adam Grant, professore di Management alla Università della Pennsylvania, che ha dedicato a questo tema un fortunato volume (uscito anche in traduzione italiana), citi ricerche che mostrano come che è proprio tra i givers che è possibile rintracciare gli worst performers di svariate attività economiche e commerciali.
3) Valorizzare la generosità non significa solo premiarla. Significa anche impedire che venga identificata con quelli che sono suoi attributi (che secondo Grant sono la ‘timidezza’, la ‘disponibilità’ e la semplice ‘empatia’) ed ancorarla ad una solida base di relazioni. D’altra parte è dentro ad un contesto di buone relazioni che i generosi hanno cominciato ad esserlo. È quindi necessario prendersi cura di quei contesti se vogliamo continuare a giovarci degli effetti della generosità. Non ci meraviglieremmo allora, avverte sempre Grant, se le analisi scoprono che in cima alle classifiche di produttività nelle aziende non troviamo takers (gli egoisti, si potrebbe dire, quelli che scalano classifiche e gerarchie sfruttando la generosità di altri), ma ancora givers.