Intesa Sanpaolo Tribes - Orchestrare una collaborazione senza confini

Una Visione completamente diversa Intesa Sanpaolo Tribes - Orchestrare una collaborazione senza confini

PROSPETTIVA 1 - IL RUOLO STRATEGICO
Intervista a Renato Dorrucci

Il tema delle comunità compare nel Piano di Impresa 2022-2025 di Intesa Sanpaolo. Da dove nasce questa esigenza?

Ci sono tre istanze, tra loro circolari, che ci hanno portati a sviluppare comunità in Intesa Sanpaolo. La prima riguarda la digitalizzazione dei processi e dei prodotti e comporta la necessità di alimentare forme di cross-collaboration tra le diverse parti dell’organizzazione, superando i confini tradizionali. Ciò è tanto più importante in una grande corporation come Intesa Sanpaolo, strutturata in silos e basata su un modello divisionale, quindi per definizione verticale e gerarchico-funzionale.

La seconda istanza è legata alle relazioni umane nelle nuove modalità di lavoro. Dopo il remote working imposto dalla pandemia abbiamo adottato un modello ibrido, ma ciò ha ridotto tanto le possibilità di incontrarsi quanto gli scambi informali. Quindi oggi ci si conosce meno, i contatti lavorativi sono sempre più finalizzati e meno spontanei: questo abbassa l’interazione sociale e offre minori possibilità di networking che, in una grande organizzazione, è un fattore abilitante per la cross-collaboration. Inoltre, il lavoro ibrido rende più complesso l’onboarding dei nuovi dipendenti.

La terza istanza nasce dalla forte necessità di upskilling, legata alle competenze e ai mestieri in evoluzione. Abbiamo iniziato a leggere la nostra organizzazione in relazione alle skill dei nostri collaboratori. È una nuova lente d’osservazione che valorizza il contributo professionale di ognuno e indaga ciò che bisogna sapere per lavorare meglio. Crediamo sia una prospettiva importante in un mondo che cambia rapidamente e che richiede competenze sempre nuove.

Queste tre istanze convergono nella realizzazione delle ISP Tribes che – per noi – danno forma a modalità organizzate che promuovono la socialità e lo scambio, con finalità di sviluppo e crescita delle persone, per accelerare la trasformazione del modo di lavorare verso il digitale, facilitare l’efficacia del lavoro ibrido, con- sentire la crescita professionale per mestieri e skill.

In Intesa Sanpaolo queste comunità si creano artificialmente o hanno una natura diversa? E quali tipi di comunità state sviluppando?

Credo che le comunità non siano e non debbano essere un costrutto artificiale: riguardano l’emersione di gruppi che hanno una naturale e spontanea vocazione a incontrarsi. L’organizzazione non ha il compito di crearle, ma di intercettarle e di organizzarle. In Intesa Sanpaolo, queste comunità naturali sono di due tipi: una più stabile e una più contingente.

La prima tipologia di comunità riguarda i mestieri, si aggrega intorno al concetto di skill, di professionalità e quindi richiama i temi di networking e collaborazione cross-border. La seconda valorizza gli interessi, che possiamo interpretare come una skill contingente, una componente elementare di un mestiere. Nel mondo lavorativo, infatti, una persona si interessa a qualcosa per due motivi: o perché riguarda la propria professione, oppure perché genera contaminazioni con altri punti di vista, per un’aspettativa futura di crescita o di sviluppo personale.

Come intercettate e fate crescere queste tipologie di community?

Innanzitutto sfruttando i due detector che abbiamo individuato – il mestiere e l’interesse – per andare a cercarli dove c’è voglia di scambiare. Ciò da un lato implica azioni di sollecitazione ed estrazione maieutica, dall’altro significa dare risposte a richieste esplicite di comunità. In questo lavoro è importante partire dai bisogni con un grado di maturità sufficiente, a cui servono “gambe per andare avanti” e cioè: un’infrastruttura digitale e un team redazionale che animi, stimoli e offra strumenti per dialogare, anche in modalità bottom-up.

In ogni caso, forzare queste dinamiche non ha senso: è importante evitare di inventarsi una comunità dove non c’è. Inoltre, non bisogna pensare che le comunità – una volta emerse – possano andare avanti da sole: la spontaneità è nel bisogno, ma richiedono un’orchestrazione continua, senza la quale non possono reggere nel tempo.

In Intesa Sanpaolo mestieri e interessi si intersecano e si sovrappongono. Come vengono gestiti questi sottoinsiemi che vivono nella stessa organizzazione?

Noi decliniamo questo concetto sempre al plurale: essere presenti in una ISP Tribe non significa aver esaurito il proprio potenziale di comunità. Per questo motivo è importante realizzare ponti tra le Tribe. Ecco perché abbiamo scelto di renderle tutte visibili in un’unica piattaforma: un unico punto di osservazione, per rendere più semplice individuare quelle a cui partecipare.

In una logica top-down abbiamo creato eventi e situazioni cross, che incentivano la multi-appartenenza. Nel frattempo, stiamo esplorando nuove logiche bottom-up, che stanno già emergendo. Abbiamo persone che creano continuità tra conversazioni e le trasferiscono da una comunità all’altra. Il primo ponte tra comunità, infatti, è sempre il partecipante.

Abbiamo parlato del valore degli scambi e delle interazioni. In che modo potrebbero trasformarsi in risultati?

I risultati sono molteplici. Per esempio, la banca sta lanciando un programma strutturato di trasformazione sull’AI, che darà forma a nuovi processi e nuovi prodotti. La Tribe dedicata a questo tema esiste già. Così il programma potrà beneficiare di una sua comunità e utilizzarla come strumento per ottenere insight, feedback e output utili per lo sviluppo di nuove soluzioni. E così le comunità genereranno ulteriore valore: non solo dalle conversazioni, ma dai prodotti generati da queste conversazioni.

Le comunità di Intesa Sanpaolo si esauriscono nel perimetro dell’organizzazione o si estenderanno anche oltre?

L’apertura delle Tribe verso l’esterno è un tema complesso e molto rilevante. Da un lato sappiamo che esistono comunità molto aperte, come quelle degli sviluppatori open source, dall’altro le organizzazioni hanno un problema pratico, legato alla cybersecurity: aprirsi significa esporsi a rischi che non possiamo sottovalutare. Nonostante ciò, in un mondo fatto di ecosistemi e scambi aperti, vedo difficile pensare che – nel lungo periodo – non dovremo aprirci.

È molto interessante capire dove trovare quei punti porosi di scambio, che facilitino il dialogo con l’esterno preservando la sicurezza dei partecipanti e dei sistemi informatici. Perché i saperi sono sempre più contaminati e hanno bisogno di nutrirsi con una linfa sempre nuova. Senza di essi, nel momento in cui una comunità raggiungesse il suo apice, rischierebbe di diventare sterile. 

 

PROSPETTIVA 2 - IL MODELLO
Intervista a Francesca Mangia

Le Tribe di Intesa Sanpaolo sono nate nel 2022. Oggi, a distanza di un anno, quali riflessioni puoi condividere?

Innanzitutto abbiamo notato che le nostre Tribe – un po’ come le persone – hanno caratteri diversi: alcune hanno bisogno di maggiori sollecitazioni, altre sono più autonome e spontanee. Un’altra riflessione riguarda i meccanismi di apprendimento partecipativo abilitati dalle Tribe, che si aggiungono alla formazione tradizionale: oggi, infatti, si può imparare non solo dai docenti, ma anche dai colleghi. Ciò ha un valore immenso, perché mette in comune l’enorme base di conoscenza, esperienza e professionalità presenti in un’azienda grande e articolata come la nostra.

C’è poi un elemento di caring: le Tribe sono seguite e ascoltate di continuo, perché non le intendiamo come semplici spazi di interazione autonoma. Abbiamo quindi creato una strategia redazionale, relazionale e comunicativa differenziata e personalizzata per ogni Tribe. È una strategia “viva” e multidimensionale. Monitoriamo continuamente ogni Tribe per osservare l’andamento delle iniziative e le dinamiche emergenti. Da questo ascolto continuo stiamo imparando moltissimo, perché traiamo insight per animare le comunità e per sviluppare piani di comunicazione ed engagement che rispondano alle esigenze che intercettiamo.

Entriamo nello specifico: quale modello vi permette di abilitare, attivare e far partecipare le persone nelle vostre comunità?

Le nostre due tipologie di comunità, di mestiere e di interesse, hanno finalità comuni: da un lato formazione, sviluppo e networking, dall’altro scambio di strumenti, metodi ed esperienze.

Ogni Tribe poi si fonda su alcuni elementi ricorrenti. Il primo è lo spazio virtuale, integrato con il nostro ecosistema HR digitale per offrire un’esperienza seamless e permettere alle persone di accedere a tutti gli strumenti e le iniziative aziendali in un unico luogo. Il secondo riguarda la governance: tutte le Tribe hanno una struttura sponsor che intercetta il bisogno di creare una nuova community e ne indirizza lo sviluppo e l’evoluzione strategica nel tempo.

Il terzo è la redazione, team centrale di contribuzione: governa i formati e il palinsesto dei diversi contenuti. Abbiamo puntato sulla varietà per dare un ritmo e stimoli differenti per approfondire i diversi argomenti.

Il quarto ovviamente è relativo alle modalità di ingaggio delle persone: nelle fasi iniziali i partecipanti di una Tribe vengono individuati insieme alla struttura sponsor, definendo un primo bacino di partecipanti che poi sarà esteso in fasi successive con diverse modalità. Per esempio, nelle Tribe di mestiere guida l’appartenenza a una professione, mentre in quelle di interesse la partecipazione è molto più ampia e aperta.

Infine, è fondamentale alimentare interazioni e contributi significativi dal basso. Ecco perché gli ambassador sono una componente chiave del nostro modello: sono l’anello di congiunzione fra la redazione, i partecipanti e la struttura owner. Non sono solo animatori, ma agiscono come interlocutori attivi, con cui la redazione si confronta per individuare le tematiche più rilevanti. Gli ambassador sono dei catalizzatori perché, partecipando alla vita della Tribe, sono le “antenne” di prossimità, i primi a cogliere i bisogni delle persone e a essere riconosciuti. Questa vicinanza aiuta anche la decodifica dei linguaggi specifici nelle Tribe più tecniche, come quelle dedicate ai dati e all’intelligenza artificiale. Gli ambassador possono essere individuati a livello centrale, ma anche essere selezionati tra i partecipanti più attivi e coinvolti. La vita di una Tribe, quindi, è dinamica non solo nei contenuti che offre, ma anche nel suo funzionamento e nell’attivazione dei ruoli, che si evolvono nel tempo.

Nelle Tribe di Intesa Sanpaolo partecipano persone con diverse seniority e appartenenti a diverse divisioni. In che modo riescono a dialogare in questo contesto orizzontale?

Gli scambi nelle comunità sono democratici e non seguono le nostre gerarchie, anche se occorre precisare che non sostituiscono l’organizzazione. Mi piace pensare alle Tribe come a una piazza, uno spazio informale che si aggiunge all’organizzazione, in cui si discute, si fanno conversazioni, si scambia sapere, si fa rete. E i network di per sé non sono gerarchici: hanno nodi più o meno significativi che dipendono dalle competenze e dall’esperienza.

Nelle Tribe ci si confronta su temi relativi al proprio lavoro o sulle esperienze quotidiane. Soprattutto si può chiedere aiuto e ci si può confrontare con tanti colleghi; questo rappresenta un aspetto caratterizzante da valorizzare.

Quali sfide attendono le Tribe di Intesa Sanpaolo?

Una delle prossime sfide riguarda il potenziamento delle logiche bottom-up, quindi aumentare la partecipazione e l’interazione attiva e di valore fra gli utenti. Un altro importante ambito di evoluzione è l’internazionalizzazione, per sviluppare nuove connessioni tra le persone nei Paesi in cui siamo presenti. Con questo progetto abbiamo intrapreso un percorso di apprendimento e di innovazione continua e continueremo a farci stupire dalle evoluzioni che ci offrono le tecnologie, i formati e le modalità di coinvolgimento.