Identità cosmo-locali come antidoto alla metacrisi

Una Visione completamente diversa Identità cosmo-locali come antidoto alla metacrisi

Identità cosmo-locali basate sui beni comuni, contrappesi rigenerativi alle dinamiche estrattive dei mercati e degli Stati, possono aiutarci a ricostruire un nuovo tipo di collante sociale per affrontare la metacrisi.

Gli “intellettuali pubblici” sembrano essere sempre meno influenti. Una delle ragioni potrebbe essere la frammentazione dei nostri campi di comunicazione a causa del ruolo dei social media, che si sono evoluti da luoghi di incontro basati sull’affinità a bolle di filtraggio e persino a “fortezze”. Prima di Internet gli intellettuali non dovevano inoltre far fronte a un’esplosione di fonti. Ogni minuto trascorso sul web o su Youtube, per stare al passo con un panorama culturale in rapida evoluzione, è un minuto non speso nella lettura o nella pratica intellettuale.

La difficoltà di condurre ricerca è poi aggravata dalla tossicità dei social media. Se siamo davvero “costretti” a trascorrere molto più tempo online, allora è molto importante per il nostro benessere che l’ambiente sia meno tossico di quello attuale. Ma il problema è risolvibile?

Una teoria è che sia la proprietà privata dei social media a esacerbare l’effetto tossico, in quanto i proprietari scelgono ciò che attira e mantiene la nostra attenzione, cercando di causarci dipendenza, mentre ci spingono verso certi comportamenti che sono nel loro interesse e non nel nostro. Un’altra spiegazione si ispira alla teoria del desiderio mimetico di Réne Girard: le differenze di status mantengono un ordine nella nostra comunicazione e la mancanza di tali chiare distinzioni porta a una competizione permanente che sfocia in una periodica caccia al “capro espiatorio”. Questo spiegherebbe l’esplosione della cancel culture emersa contemporaneamente ai social media. Per Girard i social media sono quindi una bomba al neutrone per la nostra socialità: non si possono collegare 5 miliardi di persone e sperare che tutto vada bene.

Non aiuta il fatto che, allo stesso tempo, le nostre società stiano affrontando una metacrisi e richiedano una transizione, fattore che crea ansia generalizzata nel “mondo reale” e che si riflette inevitabilmente online. Quest’ultima spiegazione suggerisce che i social media non siano tanto la causa, quanto l’amplificatore delle crisi sociali esistenti.

Il ruolo dei beni comuni

La soluzione potrebbe essere la stessa che abbiamo trovato nel mondo reale: lo sviluppo della civiltà. La civiltà non risolve i conflitti sottostanti, ma fa in modo che vengano espressi in modi che non li esacerbino. Se non possiamo cambiare la situazione a livello macro, questo non dovrebbe impedirci di creare comunità sane e su scale più piccole, dove le regole di civiltà possono essere mantenute e ampliate una volta consolidate.

È qui che la pratica del “commoning” può essere utile, se non addirittura una necessità vitale. Che cosa sono i beni comuni? Li si può considerare come la terza istituzione umana, accanto ai mercati e agli Stati, istituzione che è sempre esistita in chiave rigenerativa e protettiva, un contrappeso alle dinamiche estrattive dei mercati e degli Stati. Mentre questi ultimi sono orientati alla competizione e alla crescita, persino alla conquista, i beni comuni sono accordi cooperativi volti a coltivare e proteggere una risorsa condivisa. Quindi un bene comune è una “cosa”, eventualmente immateriale, una risorsa da condividere, ma anche una comunità umana (che può essere estesa ad altri esseri della rete della vita) che ha preso la decisione di condividere e proteggere, ma soprattutto è caratterizzata dall’autoregolazione. I beni comuni originari erano risorse fisiche, in seguito sono stati sociali, come la mutualizzazione dei rischi della vita intrapresa dal movimento operaio che ha portato alle istituzioni dello stato sociale. Ma i beni comuni possono essere intangibili: possono essere beni della conoscenza. Sono questi beni comuni della conoscenza i nuovi agenti collettivi, che possono fungere da spina dorsale per l’intelligenza collettiva e, attraverso la loro autoregolamentazione, creare la civiltà necessaria per lo scambio di conoscenze.

Se non possiamo cambiare la situazione a livello macro, questo non dovrebbe impedirci di creare comunità sane e su scala più piccola

Una delle caratteristiche dei periodi di transizione delle civiltà è che, a causa della perdita di mezzi da parte della società o perché una nuova tecnologia introduce un livello di differenziazione più elevato, le vecchie istituzioni non sono più in grado di tenere insieme la società: si verifica una frammentazione e, di conseguenza, la polarizzazione dei gruppi sociali, che oggi assume la forma di una scissione sociologica tra i “fisici” e i “virtuali”, i somewheres (radicati localmente) e gli anywheres (radicati globalmente), come documentato da scienziati sociali quali David Goodhart, Eric Kaufmann e Matthew Goodwin. Quando le principali istituzioni perdono la fiducia delle persone e si allenta il collante ideologico che tiene insieme le nostre società, allora le persone “regrediscono” verso identità meno complesse, scale di fiducia più piccole. Una persona fisica/somewhere, non in grado di muoversi e direttamente colpita dalla deindustrializzazione, probabilmente anelerà al rafforzamento delle identità tradizionali: religione, nazione, etnia. Una persona virtuale/anywhere, in grado di navigare meglio attraverso la de-territorializzazione globalizzata, sarà più propensa a esse- re colpita dalle nuove identità intersezionali.

Entrambe le reazioni alimentano la polarizzazione, ma sono indicative di una ricerca di nuove identità e comunità che possano “proteggere” contro le incertezze dell’attuale crisi di crisi.

Le identità cosmo-locali basate sui beni comuni possono aiutare a ricostruire un nuovo tipo di collante

Identità cosmo-locali. Un nuovo tipo di collante, basato sui beni comuni Credo che le identità cosmo-locali basate sui beni comuni possano aiuta- re a ricostruire un nuovo tipo di collante. Cosa significa contribuire a un bene comune? Prendiamo come esempio la permacultura: si è con i piedi nel fango, questa è la metafora di una riconnessione con il territorio e la terra, senza la cui coltivazione nessuno può sopravvivere. Il cuore dei permacultori è nella propria comunità locale, ma il loro cervello e l’altra parte del loro cuore si trovano nei beni comuni della permacultura globale. In altre parole, hanno esteso la loro identità oltre il locale, acquisendo un’identità trans-locale e trans-nazionale non attraverso un concetto alienante di globalizzazione aziendale, come un individuo d’élite sradicato, ma con una profonda partecipazione a una vera comunità costruttiva, che sta contribuendo a risolvere la metacrisi che sta alienando la maggior parte di noi. Il cosmolocalismo è sinonimo di innovazione globale radicata ma estremamente rapida. Se sei un anywhere ti suggeriamo di diventare un everywhere, utilizzando il tuo virtuosismo di nomade digitale per essere al servizio della produzione rilocalizzata, impollinando le comunità locali con la conoscenza di altre comunità locali. Se sei un imprenditore (entrepreneur), etimologicamente “che prende in mezzo”, ti suggeriamo di diventare un interdonatore (entredonneur), “che dona in mezzo”.

La pulsazione dei beni comuni

Questa rinascita dei beni comuni non è un incidente storico, ma un fenomeno ricorrente che chiamo “pulsazione dei beni comuni”. Sappiamo da studiosi come Peter Turchin che le società si evolvono ciclicamente, in fasi ascendenti e discendenti. I mercati e gli Stati, potenti istituzioni storiche esistenti da migliaia di anni, sono essenzialmente orientati alla crescita o alla conquista e finiscono sempre, senza eccezioni, col superare il livello regionale di risorse, fino ad arrivare a un superamento di risorse a livello globale. Anche i beni comuni seguono un flusso e riflusso che è però anticiclico rispetto alle altre due istituzioni. Quando la vita delle persone è messa a dura prova nelle fasi discendenti dei sistemi di mercato e di Stato, esse fanno rivivere i beni comuni, cioè le istituzioni che mutualizzano il rischio e rigenerano e preservano le risorse. Il capitalismo globale ha reso il superamento di risorse translocale, planetario. Ciò significa che oggi che il nostro sistema sociopolitico si sta disintegrando in una nuova transizione caotica (Peter Pogany), la nostra risposta deve essere sia locale che translocale e planetaria.

Cosa possiamo fare allora?

Innanzitutto estendere il contratto sociale al mondo intero, garantendo la vita di tutta l’umanità. In secondo luogo, creare forti istituzioni protettive in grado di difendere le comunità umane e non umane, che propongo di chiamare “Magisteri dei beni comuni”. Infine, seguendo i suggerimenti di Bruno Latour e altri, abbiamo bisogno di un contratto sociale tra l’umanità e la rete vitale da cui dipende. Si tratta di un compito senza precedenti per il nostro modello di civiltà, che si basa sul principio opposto di considerare la natura come un mero oggetto di gestione e godimento umano. Oggi, nell’Antropocene, gli esseri non umani non possono vivere senza di noi e noi non possiamo vivere senza di loro. Il mezzo per raggiungere questo obiettivo non è né il mercato né il dominio dello Stato, ma un consenso tra le nostre tre istituzioni storiche, che deve quindi includere anche i beni comuni. 

Abbiamo bisogno di un contratto sociale tra l’umanità e la rete vitale da cui dipende