Una Visione completamente diversa Cerchi e linee: metafore per una società post-razzista
Abbiamo bisogno di una nuova metafora per la comunità che non sia un recinto, un cerchio chiuso. Immaginare comunità post-razziste è possibile se riusciamo a sviluppare un coraggio intellettuale sulla materia e l’empatia.
sintesi
Da consulente, educatrice e insegnante, lei avverte una rinnovata importanza della prospettiva comunitaria?
Mi occupo di questioni razziali e culturali e credo che, da sempre, queste comunità abbiano sviluppato forme di resistenza collettiva per rispondere agli attacchi. Da questo punto di vista, quindi, non credo ci sia un rinnovamento. Infatti è riconosciuto che questi temi richiedano un’idea e un approccio collettivistico e comunitario, ma stiamo invece perdendo la capacità di metterlo in pratica. Almeno negli Stati Uniti, la Gen Z è sì collettivista, ma è ancorata a tecnologie e ai social media che ci stanno facendo perdere qualità davvero importanti, come l’empatia, la coesistenza con le differenze, la comprensione dei punti di vista altrui.
Come dobbiamo immaginare una comunità che possa contribuire a un mondo più giusto, equo e inclusivo?
Abbiamo sempre immaginato le comunità come un cerchio. Così ce le insegnano le scienze sociali: con un gruppo interno e uno esterno. Impariamo che ci siamo evoluti in questo modo. Quando però guardo l’universo e la natura non vedo sistemi chiusi, piuttosto entità che si espandono in modo accelerato, in tutte le direzioni.
E, quindi, se avessimo sempre pensato alla comunità nel modo sbagliato? Il massimo che possiamo fare con un cerchio è immaginarlo sempre più grande, lasciando sempre qualcuno all’esterno. Perché un cerchio ha sempre un margine e un’esclusione. E se invece la comunità fosse una linea? Rappresentandola in questo modo saremmo tutti più cauti nel fare affermazioni su chi vi appartiene, chi vi è entrato per primo e chi non può accedervi. Tutti i nostri problemi di inclusione hanno questa sorta di pregiudizio circolare e cronologico.
Credo che dovremmo insegnare alle persone fin da piccole a pensare le comunità in modo diverso. Dovremmo lavorare per creare identità che non dipendano da queste idee di autorità ed esclusione.
Il suo focus di ricerca riguarda il razzismo e, nel suo libro, parla di una “comunità coraggiosa” che può aiutarci a immaginare una società post-razzista. Può spiegarci di cosa si tratta?
È essenzialmente un metodo che ho ideato per aiutare chi insegna nelle università. Il progetto originale è uno studio sociologico qualitativo sulle classi universitarie, con studenti di diversa provenienza, tra i 18 e i 22 anni, in cui i professori insegnavano temi come il razzismo e altri argomenti difficili. E lo facevano con successo. La teoria che chiamo “comunità coraggiosa” aiuta gli studenti a sviluppare due elementi cruciali: coraggio intellettuale sulla materia ed empatia. La dinamica che nasce è questa: si sviluppano “le basi per l’apprendimento”, una combinazione di contenuti, la cultura, e “perché” si stanno imparando determinate nozioni.
È come quando un professore molto bravo insegna un argomento difficile: gli studenti non ne ricavano solo nozioni, ma anche idee su come devono comportarsi e come devono interpretare quella combinazione di contenuti.
Tutti i nostri problemi di inclusione hanno questa sorta di pregiudizio circolare e cronologico: tutto ruota intorno all’idea che la comunità sia chiusa.
Lei afferma che non riusciamo a immaginare un mondo al di là del razzismo. Come può aiutarci una prospettiva comunitaria?
Se ci pensate, nel mondo moderno ci sono poche cose che immaginiamo tutti allo stesso modo, a ogni latitudine. Il razzismo è una di queste, il capitalismo l’altra. Non penso che tutti siano razzisti, ma siamo tutti pienamente coinvolti in un mondo strutturato su basi razziali e capitaliste. È come dire “il cielo è blu”: è uno stato di cose ideologico così potente che nessuno può mettere in discussione. A meno che non si lavori contro questo concetto radicato. È l’assenza di capacità di immaginazione a perpetuare il razzismo. Ora, perché abbiamo bisogno di attivare una immaginazione post-razzista in una prospettiva comunitaria? Il razzismo opera a molti livelli: non è solo un sistema strutturale, è anche un sistema ideologico e, se non ci esercitiamo a pensare al di fuori di esso, rimarremo circondati da punti di vista razzisti. Invece quando le persone si trovano in una “comunità coraggiosa”, per la prima volta hanno la possibilità di uscire da questa situazione. E il razzismo diventa un concetto che si può mettere in discussione, con un’origine socio-storica. In un ambiente di apprendimento in cui si possono porre domande, si attiva una capacità di riflettere, e qualcosa di nuovo diventa possibile. Negli studenti vedo questo meccanismo: cominciano a capire cose che prima non capivano.
Dovremmo iniziare a lavorare sull’idea che forse abbiamo bisogno di una nuova metafora per la comunità che non sia un recinto, un cerchio.
Questo metodo potrebbe servire per affrontare questioni importanti le- gate alla Diversity, equity & inclusion. Ma lei fa notare che, nelle organizzazioni, molte politiche legate alla DEI siano “costruite per fallire”. Cosa suggerirebbe per affrontare questi problemi in modo efficace?
Servono un approccio rigoroso e interventi specifici rispetto al contesto, perché ci sono competenze, missioni, obiettivi e modi di fare diversi: un museo è diverso dalla Coca-Cola, da un sistema scolasti- co o da un’organizzazione governativa. Tutte queste istituzioni hanno traiettorie socio-storiche diverse. Quando si tratta di DEI, invece, pensiamo che queste specificità non abbiano importanza e che sia sufficiente un consulente qualsiasi per fornire politiche efficaci. Ciò non ha alcun senso. Consiglierei quindi di partire dall’approccio delle comunità coraggiose. Così le persone possono comprendere come e perché le loro istituzioni e i loro contesti siano diventati diseguali, per poi essere guidati in un processo di apprendimento che possa aiutarli a risolvere il problema attraverso le proprie competenze, nel proprio specifico contesto.
Concludiamo con un esercizio di ottimismo: che caratteristiche dovrebbe avere una comunità futura in grado di andare oltre il razzismo?
Sono sempre ottimista nei confronti degli esseri umani: siamo organismi che vogliono vivere, come la natura. Dobbiamo allenare un culto della vita e non il culto della morte, che è alla base del razzismo.
Una comunità post-razzista dovrebbe poi essere informata e istruita. Dovrebbe essere non solo multiculturale e multirazziale, ma anche dinamica. Se torniamo alla visione della comunità che supera la visione circolare, possiamo visualizzare una comunità post-razzista in continuo cambiamento. Poi, deve avere un orientamento verso l’eterogeneità e comprendere ciò che siamo come civiltà umana, che è fatta di eterogeneità, di dialoghi interculturali, di migrazioni.
In realtà non dobbiamo cambiare molto: gli esseri umani non hanno paura del cambiamento, delle differenze, non sono stabili. Oggi però ci insegnano bugie fin da bambini: all’asilo ci dicono che la nostra comunità è omogenea, è migliore delle altre, è stabile, non può sostenere il cambiamento, che gli estranei non possono entrare. E così si sviluppano paura, xenofobia, razzismo, omofobia, transfobia. Dobbiamo disimparare questi concetti e re-imparare chi siamo nel profondo: esseri coraggiosi, empatici e sociali.